La campagna romana
“In questa terra deliziosa, le ville sono veramente case di delizia, e come gli antichi romani già avevano qui le loro ville così cento e più anni or sono, alcuni romani facoltosi non meno che fastosi hanno qui posto le loro case di campagna nelle posizioni migliori. Già da due giorni ci aggiriamo qua e là e troviamo sempre qualcosa di nuovo e di seducente.”
Con queste parole Goethe, il 15 novembre 1786, descriveva uno dei luoghi che, ad appena mezzora dalla capitale, permette ancora oggi di immaginare cosa rappresentasse, nel Sei e Settecento, la villeggiatura per la nobiltà romana: la città di Frascati. Rinomata per il paesaggio ameno e la buona cucina, Frascati ospita la più grande concentrazione di ville aristocratiche di campagna del Lazio. Si tratta di ville che gareggiano per bellezza e sontuosità e che oggi, quasi miracolosamente, sono scampate se non alla decadenza, almeno alla distruzione. Villa Falconieri, Arrigoni, Lancellotti, Ludovisi, Sciarra, Sora sono soltanto alcune delle meravigliose costruzioni che sorgono sul territorio, ma tra tutte troneggia senza dubbio quella può essere considerata la vera regina dei Castelli romani: Villa Aldobrandini.
Storia della costruzione
Sull’antico sito dove sorge la costruzione che oggi vediamo, già a metà del ‘500, era stata costruita da monsignor Alessandro Ruffini una prima villa denominata “Belvedere”, per la posizione dominante sui colli e su Roma e da cui si poteva scorgere anche il mare. Dopo vari passaggi ereditari arrivò finalmente, nel 1598, a Clemente VIII Aldobrandini, che la donò al cardinal nepote Pietro “per suo servizio e piacere”. Questi diede inizio ai lavori di ristrutturazione che, in un primo progetto affidato a Giacomo della Porta, prevedevano l’ampliamento dell’edificio esistente. Questo venne in seguito demolito per costruire l’attuale villa il cui progetto fu affidato, dopo la morte del primo architetto, a Carlo Maderno con l’aiuto di Domenico Fontana. Il tutto venne terminato nel 1603 in brevissimo tempo, con una spesa che dagli originali 3000 scudi previsti arrivò a circa 12000.
Sbancata la collina retrostante, su un ampio terrazzamento, collegato al basso da un complesso di scale digradanti e da un viale centrale ornato di siepi, sorge su quattro piani (con uno seminterrato dedicato agli ambienti di servizio) la palazzina dalla monumentale mole rettangolare, alleggerita da lesene e cornicioni sulla facciata; da una altana con timpano triangolare e da due profonde terrazze alla destra e alla sinistra. Svettano, su ognuna di queste, due alte torrette che altro non sono se non comignoli dei caminetti delle cucine elegantemente mascherati.
Gli interni vennero sfarzosamente decorati con affreschi realizzati dal Cavalier d’Arpino, Domenichino, Zuccari e Passignano, con arredi, quadri, reperti archeologici e preziosi corami, ovvero tappezzerie di cuoio lavorato con motivi araldici. Purtroppo gli interni della palazzina, poiché il complesso è ancora di proprietà della famiglia, sono inaccessibili al pubblico, ma si può visitare liberamente il parco delimitato, nel piazzale retrostante, dalla bellissima scenografia del Ninfeo.
Il giardino
Denominato anche “Teatro delle Acque” e considerato da Charles De Brosses “une des plus belles choses qui puisse voir au monde en ce genre”, il Ninfeo è composto da una costruzione semicircolare lunga ben 118 metri e comprende la stanza d’Apollo, una cappella e delle stanze sotterranee che davano refrigerio dal caldo durante il periodo estivo. Inserite all’interno delle nicchie vi erano numerose fontane decorate con sculture, mosaici, affreschi e incrostazioni di travertino e conchiglie, a metà tra il gusto eclettico manierista e quello barocco votato alla meraviglia. Il tutto era animato da giochi d’acqua, che partivano dalla sommità del parco (oggi purtroppo in stato di abbandono) e arrivavano, tramite un canalone centrale in basso, fluendo lungo due enormi colonne tortili chiamate non a caso “le colonne d’Ercole”, fino all’esedra centrale.
Al centro del Ninfeo sorge la statua in stucco con Atlante che sorregge il globo terrestre, da cui sgorgano zampilli, l’unica sopravvissuta e un tempo completata dal gruppo di Ercole, delle Esperidi e del gigante Encelado, la cui bocca affiorava dal bacino dell’acqua. Nelle nicchie circostanti si vedono Polifemo che suona la zampogna e Centauro che suona il corno che, oltre a gettare acqua, in virtù di un complicato meccanismo che convogliava un flusso d’aria, producevano un terribile suono.
Nella stanza dell’Organo (purtroppo chiusa) spiccavano, tra gli affreschi di Domenichino, il gruppo ligneo arricchito con fiori colorati in ferro battuto rappresentante Apollo, le Muse e Pegaso sul Parnaso e una palla di rame, che danzava continuamente a mezzo metro d’altezza dal pavimento, grazie a una corrente d’aria portata da un foro sotto di essa.
In ogni angolo, dai pavimenti agli stucchi fino ai vasi di terracotta, ricorrono stelle e rastrelli ovvero i simboli araldici della famiglia Aldobrandini i cui membri, secondo il tradizionale fine encomiastico, erano rappresentati dalle virtù delle figure mitologiche effigiate nelle statue.
Accanto a questo filone l’intero complesso dei giardini rispondeva anche ad una simbologia esoterico-spirituale: il mascherone, in tutto simile a quelli più famosi di Bomarzo, scolpito nel 1612 nella viva roccia a delimitare l’entrata di una grotta, avrebbe rappresentato il passaggio dal Male (l’orco che inghiotte) al Bene (i riferimenti mitologici delle fontane), frutto di un duro cammino. Il tutto tenendo conto anche della faticosa salita materiale del giardino: partendo dal mascherone si passava infatti per le colonne d’Ercole fino alle fontane rustiche sulla sommità, che adombravano a “una resurrezione nella semplicità della vita agreste”[1].
La villa oggi
La villa, originariamente aperta a tutti, fu poi chiusa da una alto muro quando passò ai Pamphilj, tramite il secondo matrimonio di Donna Olimpia con Camillo Pamphilj, rimanendo di proprietà della famiglia fino al 1760. La proprietà passò poi a Francesco Borghese, fratello del marito di Paolina Bonaparte Camillo, il quale ottenne di usare il cognome Aldobrandini avendone ottenuto i beni per via ereditaria. Fu danneggiata dai bombardamenti della seconda guerra mondiale e restaurata dall’architetto Clemente Busiri Vici. Oggi resta ancora di proprietà della famiglia che apre il parco, ma non la villa, affittata per ricevimenti ed eventi.
Bibliografia
[1] Belli Barsali I., Branchetti M. G., Ville della campagna romana, Milano, 1975.
De Brosses C., Lettres Familiares, 1869, p. 273.
D’Onofrio C., La Villa Aldobrandini di Frascati, Roma, 1963.
Goethe G. W., Viaggio in Italia, 1948.
Sito Ufficiale: www.aldobrandini.it
Luoghi simili:
Villa Falconieri, Frascati
Bosco dei mostri di Bomarzo
Villa Farnese, Caprarola
Villa Lante, Bagnaia
Villa Caprile, Pesaro
3 Commenti a “Villa Aldobrandini a Frascati, Lazio”
Non esistono affreschi dello Zuccari in questa villa, è un errore che si legge in internet ma non nei libri citati in bibliografia.
E’ un errore dire che Atlante regga il globo terrestre. Lo si vede bene in quello Farnese cosa regga.
Camillo Borghese non ottenne di assumere il cognome Aldobrandini ma ne fu obbligato per la Secondogenitura Aldobrandini come era nel fedecommesso istituito un paio di secoli prima.
Ci sono degli errori
Gentile Dott. Fabriani Rojas, riguardo i presunti affreschi degli Zuccari ho trovato la notizia in una guida del Touring club (in particolare “Lazio: Roma e il Vaticano le città etrusche e medievali dalla Tuscia al Circeo”, 2004, p. 249), mi rendo conto sia scorretta ma non ho potuto verificare perchè, come ben sa, la Villa è normalmente chiusa al pubblico. Riguardo cosa regga la figura di Atlante sono certamente a conoscenza che il Gigante regga il Cielo e mi scuso per la svista; sarebbe stato più corretto adottare il termine “mondo” (usato infatti dalla Belli Barsali p. 181) comprensivo dei due globi, l’uno contenuto nell’altro. Riguardo infine Camillo Borghese, nel testo mi riferisco al fratello Francesco che, come scritto della Belli Barsali a p. 182 “divenuto erede dei Borghese, degli Aldobrandini, e per parte di madre, dei Salviati, ottenne di usare il nome Aldobrandini.” Ora approfondire nell’articolo i motivi per i quali questi ottenne o fu obbligato ad usare il cognome, trovo sia poco interessante per il lettore. Mi permetto di ricordarle che questa sede non è quella di una rivista scientifica nè di una pubblicazione accademica, il fine del blog è quello della divulgazione culturale e gli articoli sono rivolti ad un pubblico vario che può comprende sia specialisti sia semplici curiosi. Dunque proprio da lei che leggo essere la curatrice dell’archivio Aldobrandini e dunque un’esperta di questi argomenti, mi aspetto maggiore comprensione, proprio perchè il testo non ha nessuna velleità scientifica e le semplificazioni non sono dovute ad approssimazione o all’ignoranza dello scrivente, ma alla necessità di renderlo non eccessivamente prolisso e facilmente comprensibile. Mi permetto comunque di dire che, nonostante gli “errori” da lei segnalati, tra i numerosissimi articoli in rete questo è uno dei pochi in cui si è cercato di non fare uno sterile copia-incolla ma di verificare per quanto possibile le fonti e di dare una impronta maggiormente approfondita pur nei limiti, come già detto, che impone la natura del blog. Mi permetto poi di dirle che usando una minore secchezza nei suoi commenti avrebbe ottenuto comunque lo stesso risultato, non dando la sensazione di “fare le pulci” all’articolo, cosa che immagino non era certamente nelle sue intenzioni. La ringrazio comunque delle segnalazioni che rivelano certamente una passione nel trattare l’argomento già di per se molto apprezzabile. Cordialmente AM