Il simbolismo. Arte in Europa dalla Belle Époque alla Grande Guerra.
Catalogo della mostra (Milano, 3 febbraio-5 giugno 2016)
di Editore: 24ore cultura
web: mostrasimbolismo.it
L’ultima mostra sul Simbolismo si tiene a Palazzo Reale di Milano e ci offre forse la più grande retrospettiva sul movimento pittorico degli ultimi anni, raccogliendo il meglio degli artisti italiani e europei.
L’esposizione è monumentale: più di 20 sale con opere di grande portata, tra cui spiccano gli italiani Giulio Aristide Sartorio con l’imponente ciclo pittorico “Il poema della vita umana”; Galileo Chini che occupa un’intera sala con i fregi per la Biennale, la “Primavera”, altre tele e un bellissimo paravento in stile giapponese; una saletta in stile moresco è dedicata a Vittorio Zecchin con i pannelli del ciclo “Le mille e una notte”; la più suggestiva è però la buia saletta di Alberto Martini, in cui campeggia il suo autoritratto del 1911, circondato da varie chine provenienti da collezioni private. Non solo grandi nomi, ma anche i meno conosciuti Luigi Bonazza, Giorgio Kienerk, Cesare Laurenti e Leo Putz. Per quanto riguarda la controparte europea si percepisce un’attenzione al mondo belga (Félicien Rops, Fernand Khnopff, Jean Delville) e mitteleuropeo (Kupka, Jacek Malczewski, Wladyslaw Podkowinski), sicuramente più presente rispetto alla parte francese (spicca William Degouve de Nuncques, oltre agli immancabili Odilon Redon e Gustave Moreau) e tedesca (il solito Von Stuck e Max Klinger).
Il catalogo che ne viene fuori è un bel libro, vademecum utilissimo per conservare memoria delle opere in mostra (soprattutto perché è vietato fare foto), ma purtroppo delude per i testi: i contributi critici sono scarni, solo 4 i saggi di cui il più ricco è quello dell’unico italiano Fernando Mazzocca il quale, peraltro, aveva curato il catalogo della mostra di qualche anno fa “Liberty, uno stile per l’Italia moderna”, meno internazionale ma di più grande spessore critico e nella quale erano presenti quasi tutte le opere italiane esposte nella corrente mostra milanese.
Questa vita tuttavia mi pesa molto
di Edgardo Franzosini
Adelphi, 2015, 2ª ediz., pp. 117
web: adelphi.it
Franzosini è narratore di storie dimenticate ed è per questo, cercando notizie sullo scultore Rembrandt Bugatti (1884 – 1916), che ho conosciuto i suoi libri. Nel suo ultimo, racconta la storia di questo artista, attivo negli anni ’10-’20 tra Parigi e Anversa, fratello del più famoso Ettore, fondatore della casa automobilistica, figli entrambi del noto mobiliere Carlo.
E’ bene subito dire che Franzosini scrive storie realmente accadute: i suoi protagonisti sono talmente assurdi da poter sembrare inventati, ma in realtà sono persone esistite . Si tratta di vite a margine, sempre in ombra, persone mai veramente protagoniste e che hanno lasciato appena qualche traccia dell’esistenza. Prima di Rembrandt aveva scritto di Bela Lugosi, l’attore vampiro; prima ancora Raymond Isidore e la sua cattedrale (la storia di un custode di cimiteri che ideò una cattedrale interamente costruita con detriti) e poi Giuseppe Ripamonti, lo storico seicentista che ispirò a Manzoni I Promessi Sposi e, processato dall’Inquisizione, finì incarcerato nelle segrete del palazzo arcivescovile di Milano.
Ma è in quest’ultima biografia che si supera, raccontando in modo delicatissimo, e a tratti commovente, la storia di Rembrandt Bugatti, scultore triste e misconosciuto, aristocratico e solitario. Franzosini non è uno storico dell’arte, né di cinema, non dobbiamo aspettarci informazioni storico-critiche, il suo racconto è raffinata suggestione di chi, amando un personaggio, cerca di narrare, più che ricostruire, la sua vita, i suoi pensieri. Così parlando di Rembrandt Bugatti non racconta azioni, non inventa dialoghi, non mette in ordine i fatti, descrive: il grande zoo di Anversa in stile art nouveau con i due mosaici che ornano l’ingresso, il Feestpaleis e il finto Tempo Egizio; l’incontro tra lo scultore e lo scrittore Remy de Gourmont al Jardin des Plantes di Parigi; l’amicizia con Paolo Troubetzkoy, scultore anche lui e poi ancora Boni de Castellane, il ricco decaduto a cui Rembrandt fa un ritratto; l’artista giapponese Foujita, che amava solo i gatti e ovviamente gli altri scultori animalisti del periodo Albéric Collin e Oscar Jespers, con cui Rembrandt va ad abitare ad Anversa.
Il titolo allude ad una vita trascinata come un peso, sembra che Rembrandt trovi sollievo solo negli zoo perché qui può ammirare i suoi amati animali. A lui non interessava scolpire ritratti, uomini, donne o ballerine, ma solo animali. Così, quando per paura dei bombardamenti tedeschi le autorità del Belgio decisero di sterminare tutte le bestie dello zoo (una scena descritta con estrema crudeltà), Rembrandt ne soffrì fino a deprimersi e, mai più guarito dagli orrori della guerra, si suicidò all’età di 32 anni.
Il gagà – saggio sull’abuso dell’eleganza
di Massimiliano Mocchia di Coggiola
Giubilei Regnani, 2015, pp. 200
web: giubileiregnani.com
Da poco è stato pubblicato il saggio dell’amico Massimiliano Mocchia di Coggiola (che spesso collabora a questo blog), esperto di moda maschile e talentuoso illustratore che, fin’ora, aveva soltanto scritto introduzioni (tra cui quelle per i libri di Ivano Comi) e articoli. Questo è dunque il suo primo vero libro. Il breve saggio è il primo dedicato alla figura del gagà e si rivela uno scorrevole racconto cronologico, ricco di fonti e citazioni della storia del costume, che ricostruisce la storia del gagà: dal proto-gagà alla corte di Versailles ai gagà contro i dandy dell’Inghilterra vittoriana, dai gagà futuristi a quelli un po’ fascisti, fino ai gagà dei giorni nostri che vanno al Pitti Uomo. La storia dimostra che sono sempre esistiti parvenu dell’eleganza, uomini che usano l’abito per comunicare il proprio successo economico, prima ancora che un concetto di bellezza assoluta.
Questo non è però un trattato di stile maschile e chi cerca regole e indicazioni su come vestirsi rimarrà deluso. Ciò che viene qui analizzato è più sottile, siamo di fronte ad una sorta di semiotica dell’eleganza maschile, di cui l’abito non è che l’involucro esteriore. La preoccupazione dell’autore è quella di leggere attraverso i piccoli segni che l’abbigliamento comunica, allo scopo di riconoscere l’autentica eleganza, quella intellettuale. La questione centrale è quindi di gusto: pochi iniziati sapranno vedere quei piccoli dettagli che sono autenticamente eleganti e altri che invece sono copie pretenziose, frutto di mode. La figura da copiare, da cui partono tutte le mode maschili, è il dandy. Il gagà è, a sua insaputa, un derivato, privo di una propria eccentricità, esiste solo come controfigura malriuscita del dandy, questo sì naturalmente raffinato ed eccentrico, arbiter elegantiae senza sforzo. Se il dandy è di un’eleganza straordinaria poiché il suo aspetto rispecchia un’indole interiore raffinatissima, il gagà vede di questo status solo l’aspetto esteriore: “il dandy opera una rivoluzione attraverso l’arte di vivere e di creare; il gagà per quanto esteriormente possa assomigliargli, non opera alcuna rivolta, anzi non la capisce e a volte la può perfino contrastare. Il gagà abbisogna del branco per sopravvivere, che il suo unico interesse è sembrare. Apparire, da un punto di vista barocco, è cosa che appartiene al dandy”.
Il gagà, l’estetino fin de siecle caricaturizzato e esagerato, non è che una macchietta, così come la rappresentò Ettore Petrolini nel suo sketch Gastone, ma in questa sua ingenua velleità di ricerca dell’eleganza è persino perdonabile. Infatti l’autore lo assolve, perché sebbene sia una copia malriuscita, in quanto tale è conferma del riferimento ad un modello tenuto in considerazione, un’aspirazione verso qualcosa di alto. Meglio dunque un gagà con i suoi tentativi goffi che la mediocrità omologata dei tempi moderni.
Per concludere la mia bibliografia sul rapporto tra d’Annunzio e l’arte ho finalmente trovato “I Pittori dell’Imaginifico” di Renato Mammucari e Rigel Langella (1989), che completa così le informazioni trovate nel già recensito “Gli illustratori di d’Annunzio” di Vito Salierno.
Le rose benedette da Santa Rita da Cascia, donatemi il 22 Maggio
Salone del libro di Torino:
I pochi libri che ho acquistato al Salone del Libro di quest’anno sono per lo più fuori catalogo da anni. L’unico di recente pubblicazione (2014) è il romanzo di Annamarie Scharzenbach “Gli amici di Bernhard”, per la prima volta pubblicato in italiano dalla casa editrice L’Orma, che si è distinta per il bel progetto Hoffmanniana.
Dalla bellissima casa editrice La Conchiglia di Capri, sempre attenta agli autori legati all’isola, ho finalmente trovato il libro di Compton Mackenzie “Donne Pericolose”, 1995.
Vera rivelazione è stato scoprire la storica casa editrice torinese Fògola, che oggi pubblica soprattutto gialli ambientati nel capoluogo piemontese e che in passato invece pubblicava libri come questo: “Una farfalla bianca per Guido Gozzano”, di Valentino Brosio (1983), libro pieno di figure, un ritratto più che una biografia, anche se molto datata, del poeta crepuscolare.
Finalmente ho potuto visitare la casa dell’architetto designer Carlo Mollino
(l’entrata e io su una sedia disegnata da Mollino all’interno della casa museo)
I luoghi da me preferiti (Caffé San Carlo e Galleria Subalpina)
2 Commenti a “Salone del Libro e nuove recensioni”
Devvero molto interessante. Grazie per l’articolo.
Grazie Patrizio!
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