Volto femminile con grappoli d’uva. Olio su cartone. S.d. Collezione privata.
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In vista di un futuro lavoro monografico che raccolga in maniera esaustiva l’opera pittorica e grafica di Raoul Dal Molin Ferenzona e al fine di arricchire l’archivio personale già esistente, i possessori e collezionisti di suoi lavori sono gentilmente invitati a mettersi in contatto con l’autore: e.bardazzi@hotmail.it.
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Raoul Dal Molin Ferenzona: angeli e demoni del «perfido giovanotto»
«Io non sono fatto per il reame della Terra»: è il pensiero che Raoul Dal Molin Ferenzona attribuisce a Gesù Cristo ansimante e avvolto dall’alone bistro della suprema angoscia nell’orto di Getsemani. Ma «lo Spirito d’amore volle allora con immense sofferenze legarsi in lui per l’eternità allo Spirito della Saggezza: la sua anima fu allora essenzialmente Femminile nel suo corpo d’uomo», realizzando il dominio dello spirito sulla forma (R. Dal Molin Ferenzona, Cristo a Getsemani, in Saggi di riflessione illuminata. Élèh, Firenze 1926).
Giovinezza
Queste parole suggestive ci introducono alla personalità del nostro autore, uno degli artisti più tribolati e misconosciuti del ‘900 italiano, al quale sarebbe possibile applicare una lista di definizioni, senza tuttavia riuscire a catturarlo ed imbrigliarlo in etichette univoche. Raoul Dal Molin Ferenzona – non uno pseudonimo ma un nome e cognome veri, dal fascino esotico, aristocratico e romanzesco, un enigma irrisolto che non rivela identificabili origini dinastiche – nacque a Firenze il 24 settembre 1879, da genitori allora residenti a Livorno. Rimase prestissimo orfano di padre perché Giovanni Gino Ferenzona, libellista antigaribaldino e corrispondente a Livorno per la Gazzetta d’Italia, fu assassinato per motivi politici la sera del 19 aprile 1880, quando Raoul aveva meno di un anno. Questa vicenda luttuosa pesò molto sulla sua infanzia e adolescenza, rendendolo un ragazzo scontroso e introverso, legatissimo alla madre e al fratello Fergan. Con loro si trasferì a Firenze dove, diventato più grande, si iscrisse al Collegio Militare per poi passare all’Accademia militare di Modena, proseguendo una carriera militare abbracciata con scarsa convinzione. Trascorreva a scrivere le vacanze a Santa Maria della Serra, sognando un futuro di letterato sulle orme del padre e del fratello maggiore Fergan, che diverrà scrittore e giornalista di professione.
Nel 1899 pubblicò a Modena con l’editore Namias il suo primo libro, scritto a diciannove anni, e dedicato alla madre, dal titolo Primulae. Novelle gentili. Conteneva sei novelle: Somnia animae, Senza nome, Cuore di bimba, La vergine del Salvàar (leggenda), Per un asso di cuori, Il figlio di Gena (novella sassone). Più che il valore letterario di quei racconti giovanili, una prova un po’ imberbe per dimostrare alla madre che la carriera militare non fosse adatta per lui, è interessante notarvi già in nuce molto di quell’immaginario che si ritroverà nella sua futura opera di pittore, disegnatore e incisore, quanto la tendenza precorritrice di celare nei testi elementi autobiografici.
L’anno successivo fece seguito un’altra novella, Mio figlio, edita stavolta a Palermo, dove si era trasferito per studiare scultura con Ximenes. L’apprendistato col maestro tuttavia durò poco e si interruppe nel giro di pochi mesi. Tornato alla volta di Firenze nel 1901 per iscriversi all’Accademia di Belle Arti, divenne amico di Giuseppe Viner, di Giovanni Costetti e soprattutto di Domenico Baccarini col quale stabilì un forte legame fraterno. Viveva e dipingeva in una cameretta in Borgo S. Jacopo e indossava un berretto raffaellesco, come lo stesso Baccarini lo ritrasse in un disegno, seduto con quel tipo di copricapo mentre è intento a disegnare.
Autoritratto. Carboncino e pastelli colorati. 1905 ca. Collezione privata.
Il cerchio. Puntasecca. 1909. Collezione privata.
Formazione
Il giovane artista amava compiacersi di atteggiamenti maudit e “preraffaelliti”, ma il Preraffaellismo giunto alle soglie del Novecento più che uno stile era ormai un atteggiamento di pensiero sofisticato, permeato di veleni simbolisti e decadenti, quello che in Inghilterra aveva già prodotto Oscar Wilde e Aubrey Beardsley. In un brano del suo libro successivo, La ghirlanda di stelle (1912), faceva riferimento a un immaginario mazzo di carte disegnato da Beardsley con cui il “perfido giovanotto” (alter ego di se stesso) era solito giocare in una taverna, mentre nel 1914 incise proprio un ritratto del disegnatore inglese, ricavandolo dalla famosa foto di Frederick Henry Evans risalente a vent’anni prima ed evidenziando ancor più le lunghissime mani poggiate sul volto magro e pensoso.
Nel 1902, mentre Baccarini lasciava Firenze e tornava a Faenza a curare la pleurite, Ferenzona intraprese un viaggio a Monaco di Baviera dove entrò in contatto col clima artistico della Secessione e approfondì lo studio di Hans Holbein e Albrecht Dürer.
Nel 1903 espose a Firenze alla Società delle Belle Arti e consegnò all’editore Nerbini i disegni firmati all’inglese “Sir Raoul” per illustrare il racconto per ragazzi I tre moschettieri di legno del fratello Fergan, pubblicato nel 1904. Fergan Ferenzona sarà tra l’altro autore nel 1907 della raccolta di novelle Sensuali e sensitive che sembrano fare da paradigma alle morboserie del fratello sull’ambiguità dell’eterno femminino.
Aubrey Vincent Beardsley. Puntasecca. 1914. Collezione privata.
Roma e primi viaggi
Nel 1904 Raoul si trasferì a Roma, dove espose per la prima volta alla Società Amatori e Cultori di Belle Arti. Iniziò a frequentare il salotto di casa Prini e la bohème artistica della capitale: Giacomo Balla, Duilio Cambellotti, Gino Severini, Umberto Boccioni, Umberto Prencipe. Con alcuni di loro aveva frequenti scontri e discussioni per il rifiuto della visione impressionista o neo-impressionista, radicalizzando il suo orientamento verso le poetiche simboliste e crepuscolari e avvicinandosi al cenacolo letterario del caffè Sartoris riunito intorno a Sergio Corazzini, con cui collaborò alla rivista “Cronache latine” disegnandone la testata e condividendone l’interesse per il misticismo estetico di Joséphin Péladan.
Introdusse nell’ambiente artistico romano anche l’amico Baccarini, in fuga da Faenza con la Bitta incinta. Quando Baccarini tornò a Faenza nel 1905 andò a vivere in Romagna per stargli vicino. Severini, ricordando il Ferenzona di quegli anni, lo descriveva come «un giovanotto piccolo piccolo, vivacissimo, intelligentissimo, con due baffi alla francese. Si diceva pittore preraffaellita e non voleva saperne d’impressionismo ecc. Era un fantasista un po’ letterato; il surrealismo sarebbe stato il suo campo».
Quando nel 1906 Severini partiva per Parigi in cerca di novità d’avanguardia nell’arte, Ferenzona si metteva in marcia per l’Europa inseguendo nostalgico le malìe del passato recente; quello delle sue più marcate affinità elettive, seguendo le tracce degli artisti e i poeti amati e vagheggiati fin dalla gioventù: tra i primi Rops, Ensor, Beardsley, Khnopff e Toorop, tra i secondi i cosiddetti “simbolisti minori”, in particolare franco-belgi, Maeterlinck, Rodenbach, Verhaeren, Laforgue, Jammes e Samain, ultima emanazione del movimento romantico a cui attinsero in vario modo i nostri poeti crepuscolari. Un vero pellegrinaggio nelle loro terre è possibile in parte ricostruire attraverso le date e i luoghi (Bruges, L’Aya, Klagenfurt, Londra, Graz, Praga, Brunn) posti in calce alle poesie della sua prima raccolta di versi e prose La ghirlanda di stelle, edita a Roma nel 1912 e definita dall’autore «libro zingaresco», dove, nel capitolo La vita nomade, scrive l’invito a sé stesso e ai propri simili «reputati come esule e pellegrino sopra la terra».
Nel 1907 era arrivata dolorosissima la perdita degli amici più cari, Corazzini e Baccarini, stroncati entrambi dalla tisi alla memoria dei quali dedicò proprio La ghirlanda di stelle chiamando «fratelli d’arte» il «poeta dolente» e il «profondo disegnatore».
Image d’autrefois. Puntasecca. 1909. Collezione privata.
Archetipi femminili
Ferenzona appartiene forse più di tutti a questa generazione di anime perdute ed esiliate di inizio secolo, orientate verso un simbolismo crepuscolare, mistico e doloroso, nutrito di sottili fremiti e turbamenti dei sensi, nel quale il segno si sposava alla parola scritta con preziosi arabeschi e rimandi significali. Nei suoi artisti prediletti Ferenzona trovava consonanza anche nell’attrazione verso l’amour du difforme e l’estetica baudelairiana secondo la quale il Bello era «qualcosa di ardente e di triste, qualche cosa di un po’ vago, che lascia corso alla supposizione», un’ideale ambiguo di voluttà circonfusa di languore, particolarmente efficace quando applicato al volto femminile, tanto più bello in quanto malinconico, stanco, carico di rimpianto e di amarezza rifluente. Quando questo principio di bellezza si travasava in un volto maschile, si declinava allora il tipo ideale del dandy: di nuovo qualcosa di ardente e di triste, allusivo a bisogni spirituali e ad ambizioni tenebrosamente ringoiate, ad una insensibilità vendicatrice, talvolta anche al mistero, ed infine alla sventura (C. Baudelaire, Diari intimi).
Ferenzona ha lasciato in quegli anni di inizio secolo alcuni intensi autoritratti che perfettamente rispondono a questa incarnazione estetica, vagamente satanica e febbricitante. Ma è soprattutto sulla figura femminile che si concentrava la sua attenzione, con maniacale devozione incisoria e calligrafica, attraverso profilature puriste a punta di diamante, gorghi e circonvoluzioni di puntasecca e acquaforte, sfumature e densità bituminose di vernice molle e acquatinta: idealizzazioni di donne angelicate oppure diaboliche, vergini immacolate e demoni della perversità, educande adolescenti e novizie ambigue in bilico sui baratri paurosi di salvezza e perdizione.
Seguace di Giuliano Kremmertz, divulgatore in Italia del pensiero del cabalista cattolico Éliphas Lévi ed autore di libri come Angeli e demonii dell’amore – dedicato all’amore come evoluzione progressiva dell’anima, distinto da quello infernale prodotto di bassezze impure e passionali, separando le potestà del mago, ispirate dall’amore e dall’altruismo, da quelle della stregoneria, caratterizzata dall’odio e dall’egoismo – Ferenzona ha fortemente a cuore la virtù pericolante, in primo luogo la propria.
La sua ossessione per le figure femminili, pure o corrotte – bipolarità dell’eterno femminino esoterico – (in Zodiacale l’artista sogna di farsi amante di un angelo pagano), è generalmente o più semplicemente asservita ad un allegorismo iniziatico, nel quale leggere anagogicamente gli arcani celesti e naturali più nascosti: un’iconografia, potremmo dire un rosario o una magica ghirlanda, di tipologie muliebri incastonate nel calvario dell’esistenza, illuminate a tratte dagli angeli, che aprono la strada alfine all’immagine venerata della Vergine Maria, la grande Madre a cui dedicò la cartella Vita di Maria (1921) e il poema Ave Maria (Misteri Rosacrociani, opera 6°, 1929).
Questo processo di “femminilizzazione” dell’universo, come impronta d’amore e di spiritualizzazione della materia bruta, l’artista lo applica anche al proprio processo di ricerca evolutiva, imponendo con gli anni alle pose trasgressive e spregiudicate del dandy e del viveur, del “perfido giovanotto” scettico e disilluso, quella che in Ave Maria chiamava «la magica prova della katarsi, la completa vittoria sui sensi», oppure la “gentilezza di cor” che Dante nella Vita Nuova attribuiva a Beatrice, fino alla tenerezza umile di San Francesco, assimilando e fondendo questo viatico interiore alla disciplina artistica, guidando il segno che traccia il metallo, il foglio o la tela (perché anche quando dipingeva tendeva a disegnare), in modo delicato e prezioso, come si fa con un ricamo.
Fanciulla malata. Olio su tela. 1906 ca. Collezione privata.
Praga
Nel 1911, durante il suo peregrinare per l’Europa, Ferenzona si trovava a Praga nel momento in cui si era costituito da poco il gruppo Sursum (1910-12), un’associazione artistica che comprendeva i pittori e incisori Josef Vachal, Emil Pacovský, František Kobliha, Jan Konůpek, Miroslav Sylla, Rudolf Adámek e Jan Zrzavý: una sorta di confraternita per la spiritualizzazione dell’arte che il pubblico comune quasi ignorò e giudicò al pari di una setta di spiritisti (in Italia è stato possibile vederli per la prima volta alla mostra “Arte e Magia” a Rovigo, n.d.r). Il loro post-simbolismo si tingeva di deformazioni espressioniste, ma era meno dirompente dell’avanguardia cubista, tendeva alla trascendenza e alle vertigini dell’assoluto, senza dimenticare i profondi abissi dell’inconscio. Diversi di loro erano innegabilmente coinvolti nell’occultismo, nella teosofia e nella magia, in particolare Vachal, un pittore che dall’età di quattordici anni soffriva di crisi allucinatorie e aveva dedicato al diavolo, «con ammirazione», la sua prima serie di acquerelli intitolati Spettri o Epica infernale (1904).
Il dipinto ferenzoniano Gaspard de la nuit, ispirato alle prose poetiche di Aloysius Bertrand, piccolo gioiello della letteratura romantica, onirica e negromantica che tanto affascinò i simbolisti e i crepuscolari, ritrae la figura diabolica dell’immaginario autore della raccolta in una maniera che questo «Mage de la nuit» e «Prince des ténèbres» sembra direttamente scaturito dalla fantasia allucinata di Josef Vachal. Anche se non ci sono notizie certe di contatti avvenuti – un cameo del soggiorno nella capitale boema rimane l’acquaforte emblematica del 1914, Praga, la via degli alchimisti –, l’influsso degli artisti della seconda Secessione praghese sembra riflettersi in varie incisioni degli anni tra il 1914 e il 1918, nelle quali il segno si aggroviglia, si ispessisce e si colora di toni infernali e perversi attraverso quella che sembra una vera e propria evocatio daemonum. In quel lasso di anni nascevano opere grafiche come Il ritratto della perfida damigella (alter ego femminile del perfido giovanotto, mostruosa creatura ibrida dal corpo di donna, la testa di serpente, le braccia di farfalla e uno scorpione impresso sul pube), Abbrutimento, Le premier bouquet, A cup of tea, Incantesimo botanico, La sinagoga del perfidi vegetali, Caput mortis, La goccia di veleno, Une terrible coquette/une formidable cocotte, in cui una venefica spremitura di fiori del male partorita dall’inconscio dava vita a una parade di tipi muliebri grotteschi, bizzarri, crudeli, perfino macabri, avviluppati nelle spire mostruose del peccato e della dissolutezza.
In occasione della mostra personale ai Bagni Pancaldi di Livorno nel 1916, Giuseppe Del Chiappa lo aveva definito «miscuglio curioso di cristiano e di pagano, di sentimentale e di sensuale […] un pervertito cattolico, un decadente»; una definizione che idealmente lo collocava nella corrente dell’estetismo torbido di Huysmans, Péladan e Lorrain, degno erede dei loro grandi personaggi letterari come Jean des Esseintes, ammaliato dai disegni fantastici evocanti la malattia e il delirio di Odilon Redon, o Monsieur de Phocas, alla ricerca ossessiva di quegli occhi femminei dolci e allo stesso tempo infernali che solo Burne-Jones, Khnopff e Toorop erano capaci di dipingere. D’altronde, in mezzo all’esplodere delle avanguardie e poi ai vari ritorni all’ordine, la vocazione simbolista rimase per Ferenzona la linea dominante, circonvoluto e caparbiamente ancorato nel corso degli anni alle origini conturbanti della sua formazione – sostanzialmente erede della cultura decadente fin de siècle – fisso al tempo in cui l’irrefrenabile, romantico desiderio di esplorare i lati ignoti ed enigmatici dell’essere aveva dato luce e ombra alle più mirabili e terribili visioni.
Gaspard de la Nuit. Tecnica mista su cartone. 1920. Dipinto nel convento di S. Croce di Ponte Avellana. Collezione privata.
Crisi mistica
Tuttavia nel 1918, al termine della guerra che aveva fatto di colpo tabula rasa dei miti trasgressivi e mondani della Belle Époque, ecco arrivare con puntualità una profonda crisi mistica che lo portò a cercare temporaneo rifugio nel Monastero dei Benedettini Monteolivetani di Santa Francesca Romana. Frutto di questa esperienza profonda e dolorosa, alla ricerca di purificazione ed elevazione spirituale, è il volume Zodiacale, edito nel 1919 e scritto tra Berna e Roma. Il libro contiene dodici racconti, dodici orazioni religiose e dodici illustrazioni incise a punta di diamante. I racconti narrano di maghi, alchimisti, giovani sensitive, angeli ed esteti, personaggi nei cui caratteri l’autore ama spesso celare sé stesso, sotto pseudonimi come Tullio Diacono (il «solitario disegnatore» e «metafisico incisore») o Rosario Stigma («un angiolo del seguito de le Dominazioni»), utilizzati in quegli anni anche per firmare stampe e disegni. Vi si scopre l’influsso di scrittori magico-evocatori come Gustav Meyrink, Edgar Allan Poe, Aloysius Bertrand, Villiers De l’Isle-Adam. Le orazioni e le incisioni evocano invece vortici di complesse simbologie astrali, esoteriche e cabalistiche. Il motto che suggella il volume è Osare-Volere-Sapere-Tacere, i quattro verbi di verità del mago già proclamati da Éliphas Lévi (pseudonimo dell’abate Alphonse Louis Constant) ne Il dogma e il rituale dell’alta magia (1855-56).
L’epilogo di Zodiacale rappresenta la propria trasformazione evolutiva ed alchemica a «Uomo nuovo»: «Più forte del dolore e perciò lieto e sincero. Scevro dalla cupidigia, dallo scetticismo, dall’ironia, dalla lussuria, Sprezzante di ogni frivolo abbellimento e ornamento. Dimentico del proprio amore per gli altri, sorrise alla vecchia decadenza che gli agonizzava ai piedi. Il nuovo operaio, fedele nell’amore e duro al lavoro, austero e semplice, di buona volontà e di buon senso, senza sentimentalità né rancore, illuminato dalla sua onestà e dalla sua chiaroveggenza, uguale dinnanzi alla povertà e alla ricchezza, il Nuovo Operaio, per cui ogni cielo è patria e ogni idioma il suo, sorrise dinnanzi al miserabile idolo d’orpello della vecchia estetica Civiltà sanguinaria. Il nuovo Religioso, amante della Morte e della Vita, della scienza naturale e spirituale libero d’ogni passione, saggio e virilmente buono, logico e cosciente, a fronte alta sillabò chiaro ai quattro orizzonti della nuova Era i quattro verbi di verità Sapere – Osare – Volere – Tacere. E finalmente questo vero cristiano fu lodato dall’onnipotente».
Visione mistica. Olio su tavola. s. d. Collezione privata.
Ultimi anni
Da allora la vita di Ferenzona sarà sempre tesa a questo impervio percorso di ascesa, ma come tutte le vite, sarà fatta anche di rovinose cadute. La dipendenza dal vino, l’indigenza e uno stato di inquietudine e di eccitazione nervosa sfociante nella paranoia, lo costrinsero nel 1934 al ricovero volontario a Roma presso l’ospedale psichiatrico S. Maria della Pietà dal quale passò per un breve periodo a quello fiorentino di San Salvi. Una volta dimesso continuò i suoi vagabondaggi di città in città, senza mai smettere di scrivere e lavorare.
Verso la fine degli anni ’20 a Firenze, in occasione di una mostra alla Galleria Bellenghi nel 1929, aveva presentato alcune opere caratterizzate da elementi di derivazione cubo-futurista, ma ribadendo la sua indipendenza dal futurismo propriamente detto, quanto da ogni avanguardia o tendenza artistica restrittiva. Si trattava infatti di un futurismo psichico, definito «chiarudienza e chiaroveggenza delle forme e del colore». Nel medesimo tempo e negli anni successivi tornava al linguaggio purista e delicato della fine del primo decennio in preziose incisioni come Fina dal cuore in gondola (1928), La chiesa – Il Cristo velato ( 1930) Il volto della comunicante (1932), Il giardino interiore (1930) e Quando batte sui vetri la pioggia di novembre (1942), ma complicato talvolta di sottili arabeschi perché – come già diceva Baudelaire – «il disegno arabesco è il più spiritualista dei disegni» in quanto linguaggio dei sogni, capace di esprimere l’immaginazione, l’alienazione, l’irrazionale. Anche Carlo Alberto Petrucci definiva il linearismo complicato di Ferenzona «una grafia delicata, commossa, che sgorga da una sensibilità quasi morbosa…una specie di manierismo decorativo».
Ferenzona seguiva la cosiddetta regola aurea tipica di molti maestri esoterici, ossia il gusto del pastiche, della contaminazione sincretistica e dei trapassi dottrinari tra le diverse tradizioni. Nel 1931 al Salon International du Livre d’Art a Parigi espose un esemplare speciale del volume Ave Maria sulla cui legatura di lusso in pergamena delineò una miniatura raffigurante la fusione simbolica tra Maria ed Iside con simboli egizi e cristiani. I suoi scritti ed elaborati artistici mescolano spesso le carte, includendo rosacrucianesimo e orfismo, massoneria e kabbalah ebraica, misticismo cristiano e dottrine orientali (buddhismo e induismo), teosofia e antroposofia, fino ad approdare ad un cattolicesimo d’impronta visionaria ed esoterica: una serie di esperienze che furono mutuate anche dall’incontro con personalità come Julius Evola, Rudolf Steiner e Jiddu Krishnamurti.
Raoul Dal Molin Ferenzona concluse la sua originale ed impervia esistenza morendo in pieno inverno a Milano il 19 gennaio 1946 a causa di una malattia polmonare: «come un uccello sperduto sotto un cielo nero, caduto esausto su una gran distesa di neve», come chiosava poeticamente l’amico di lunga data Giuseppe Sprovieri.
Copertina di Vita di Maria. 1921. Collezione privata.
Bibliografia:
Il merito della prima approfondita ricostruzione biografica dell’artista spetta al lavoro esemplare di Mario Quesada insieme a Maria Paola Maino, in occasione di ritrovamenti importanti di materiali confluiti nelle mostre alla Galleria L’Emporio Floreale di Roma gestita dalla stessa Maino (1978) e al Museo Progressivo d’Arte Contemporanea di Livorno (1979): Mario Quesada (a cura di), Raoul Dal Molin Ferenzona, catalogo della mostra, Galleria dell’Emporio Floreale, Roma 1978, e Idem, Raoul Dal Molin Ferenzona, catalogo della mostra, Museo Progressivo di Arte Contemporanea, Livorno 1979.
In anni successivi l’artista è stato oggetto di ulteriori approfondimenti da parte di chi scrive. Emanuele Bardazzi:
Raoul Dal Molin Ferenzona. Angeli e demoni del “perfido giovanotto”, in “Biblio. Arte storia e cultura del libro”, n. 2, dicembre 1995;
Raoul Dal Molin Ferenzona. “Secretum meum”, catalogo della mostra, Saletta Gonnelli, Firenze 2002;
Raoul Dal Molin Ferenzona. Per tentar l’ardua porta del mistero, in “UTZ”, n. 5, ottobre 2003;
La vita nomade di Raoul Dal Molin Ferenzona «metafisico incisore», in “Grafica d’arte”, n. 118, aprile-giugno 2019.
In tempi recenti alcuni giovani studiosi hanno contribuito con analisi molto interessanti e dettagliate:
Danila Cannamela, La ghirlanda di stelle di Raoul dal Molin Ferenzona: un’antologia neoalessandrina tra le opere dei corazziniani poeti «fuori della legge», in “Otto/Novecento”, n. 2, 2014;
Andrea Scarabelli, Lo Zodiaco ermetico di Raoul Dal Molin Ferenzona, Centro Studi La Runa online, 2016;
Michele Olzi, Raoul Dal Molin Ferenzona, World Religions and Spirituality, online, 2017;
Sergio Scartozzi, Ferenzona: l’alchimia della parola. Un juste milieu fra simbolismo, Opus e Rosa+Croce (1912-1919), in Letteratura italiana e «scienze occulte» tra fin de siècle e primo Novecento, 2018. PhD thesis, Università di Trento.
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Il cerchio. Olio su tavola. 1909. Collezione privata.
Lo scultore (Fortunato Longo). Matita nera e pastelli colorati. 1910 ca. Collezione privata.
La sinagoga dei perfidi vegetali. Vernice molle, acquaforte e rotella. 1915 ca. Collezione privata.
Une terrible coquette/une formidable cococotte. Acquaforte. 1915. Collezione privata.
Pessima. Olio su cartone. 1915 ca. Galleria degli Uffizi-Galleria d’Arte Moderna di Palazzo Pitti, Firenze.
Gli occhi degli angeli. Olio su tavola. 1926. Collezione privata.
Fina dal cuore in gondola. Puntasecca e acquaforte. 1928. Collezione privata.
La vetta. Olio su tela. 1929. Collezione privata.
La rosa e l’usignolo. Olio su tavola. 1930. Collezione privata.
Volto femminile con lacrima. Olio su tavoletta. 1931. Collezione privata.