in foto: Paris, 1915
Nils Von Dardel, Pittore della Vita Elegante
Ho sotto gli occhi un catalogo delle opere di Nils von Dardel, un vecchio libro francese [1] , forse più unico che raro, acquistato per pochi euro da un bouquiniste parigino. Sfogliandolo passano sotto gli occhi immagini coloratissime: ometti eleganti in completi viola pallido, gialli, rossicci, verde mela, calzano scarpini scollati da sera con calze colorate e si coprono vezzosamente il viso con un ventaglio, o si prendono in giro tra loro; sono pudichi e sensuali, e accompagnano signorine graziosissime dall’espressione dolce e a tratti triste, rassegnata, acconciate alla moda degli anni Venti. I signorini pare si divertano assai più delle loro compagne: suonano tamburi, gozzovigliano, giocano e a volte maltrattano cagnolini e gatti neri, festeggiando l’arrivo della primavera. A volte però si fanno assassinare… È forse un nuovo gioco tra loro? Pavoni bianchi assistono a tali sanguinose cerimonie assieme a scimmie, cervi, galli, e a una quantità di topi bianchissimi. Qua e là appaiono simboli cristiani e pagani, vedove eccentriche e ridicoli impiccati, un ballo all’aperto e una tomba. C’è un romanticismo infantile nascosto dietro le pitture di Dardel che mi affascina e al contempo mi inquieta. Dietro quei colori gioiosi si nasconde una profondità d’animo che tocca la morte.
J’ai sous les yeux une série de gravures de modes commençant avec la Révolution
et finissant à peu près au Consulat. Ces costumes, qui font rire bien des gens irréfléchis,
de ces gens graves sans vraie gravité, présentent un charme d’une nature double,
artistique et historique. Ils sont très souvent beaux et spirituellement dessinés ; mais
ce qui m’importe au moins autant, et ce que je suis heureux de retrouver dans tous ou
presque tous, c’est la morale et l’esthétique du temps. L’idée que l’homme se fait du beau
s’imprime dans tout son ajustement, chiffonne ou raidit son habit, arrondit ou aligne son
geste, et même pénètre subtilement, à la longue, les traits de son visage. L’homme finit
par ressembler à ce qu’il voudrait être. Ces gravures peuvent être traduites en beau et en
laid ; en laid, elles deviennent des caricatures ; en beau, des statues antiques.
Queste parole di Charles Baudelaire introducono uno dei suoi saggi più celebri, Il pittore della Vita Moderna (1863), dedicato all’amico Constantin Guys, pittore e disegnatore discreto nella vita quanto nella sua arte: talmente discreto che, senza Baudelaire, sarebbe probabilmente passato inosservato alla Storia. Baudelaire prese a riferimento gli acquerelli di Guys come duttile punto di partenza per condurre un saggio che parla di tutto eccetto che di pittura. Dacché l’idea del poeta è quella, più ambiziosa, di fare della pittura con le parole descrivendo, alla maniera delle fisiologie alla moda del suo tempo, dei ritratti di “tipi” parigini (la donna, il militare, la prostituta, l’artista, l’uomo di mondo, etc.), proprio come Guys fa con i suoi schizzi. Baudelaire descrive così tutto un secolo, fatto di personaggi, caratteri, mode, e morali diverse: pare di vederli animati sulle tele di Renoir, Millet, ma soprattutto Daumier.
Uno dei capitoli fondamentali del trattato di Baudelaire è forse quello dedicato al dandy. Il culto dell’eleganza estrema, importato in Francia dopo la Restaurazione, era certo quello cui aspiravano i giovani eleganti dell’Ottocento: uomo alla moda ma con gusto sopraffino, eccentrico, spesso ricco o smanioso di darne l’idea, il dandy di Baudelaire si veste si abiti sacri e fa della Bellezza una religione assoluta che non ammette leggi se non le proprie. Il “tipo” del dandy è così descritto, sinteticamente, per la prima volta dopo Barbey d’Aurevilly e il suo trattato dedicato a Brummell:
Le dandysme est une institution vague, aussi bizarre que le duel; […]Le dandysme, qui est une institution en dehors des lois, a des lois rigoureuses auxquelles sont strictement soumis tous ses sujets, quelles que soient d’ailleurs la fougue et l’indépendance de leur caractère. […]Ces êtres n’ont pas d’autre état que de cultiver l’idée du beau dans leur personne, de satisfaire leurs passions, de sentir et de penser. […]Le dandysme n’est même pas, comme beaucoup de personnes peu réfléchies paraissent le croire, un goût immodéré de la toilette et de l’élégance matérielle. Ces choses ne sont pour le parfait dandy qu’un symbole de la supériorité aristocratique de son esprit. […]
Un dandy peut être un homme blasé, peut être un homme souffrant; mais, dans ce dernier cas, il sourira comme le Lacédémonien sous la morsure du renard. […]
On voit que, par de certains côtés, le dandysme confine au spiritualisme et au stoïcisme. Mais un dandy ne peut jamais être un homme vulgaire. […]
Que ces hommes se fassent nommer raffinés, incroyables, beaux, lions ou dandies, tous sont issus d’une même origine; tous participent du même caractère d’opposition et de révolte; tous sont des représentants de ce qu’il y a de meilleur dans l’orgueil humain, de ce besoin, trop rare chez ceux d’aujourd’hui, de combattre et de détruire la trivialité. De là naît, chez les dandies, cette attitude hautaine de caste provoquante, même dans sa froideur: Le dandysme apparaît surtout aux époques transitoires où la démocratie n’est pas encore toute-puissante, où l’aristocratie n’est que partiellement chancelante et avilie. […]
Les considérations et les rêveries morales qui surgissent des dessins d’un artiste sont, dans beaucoup de cas, la meilleure traduction que le critique en puisse faire; les suggestions font partie d’une idée mère, et, en les montrant successivement, on peut la faire deviner. Ai-je besoin de dire que Monsieur G[uys], quand il crayonne un de ses dandies sur le papier, lui donne toujours son caractère historique, légendaire même, oserais-je dire, s’il n’était pas question du temps présent et de choses considérées généralement comme folâtres? C’est bien là cette légèreté d’allures, cette certitude de manières, cette simplicité dans l’air de domination, cette façon de porter un habit et de diriger un cheval, ces attitudes toujours calmes mais révélant la force, qui nous font penser, quand notre regard découvre un de ces êtres privilégiés en qui le joli et le redoutable se confondent si mystérieusement: «Voilà peut-être un homme riche, mais plus certainement un Hercule sans emploi.»
Nils von Dardel fu uno di questi erculei personaggi capace di trovare un impiego: passò la propria vita a dipingere. Baudelaire si riferiva a Guys come ad una sorta di ritrattista del dandismo; scopriremo che avrebbe potuto parlare di Nils von Dardel alla stessa maniera…
[1] AA.VV., Nils Dardel, Editions du Cercle d’Art, 1988.
Il dandy pittore
A conti fatti, il tema del dandysmo pare attirare pochi pittori, i quali quando dipingevano gli ideali d’eleganza della loro epoca (come faceva Guys), tentavano di praticarne pure i dogmi baudelariani (Toulouse-Lautrec, Boutet de Monvel). Lo svedese Nils von Dardel (1888-1943), a volte scritto semplicemente Nils Dardel (il “von” lo aggiunse più tardi, per manifestare alla maniera francese le proprie origini nobili) fu probabilmente il più rappresentativo di costoro: seppe infondere tanto dandysmo nella sua opera quanto nella propria vita.
Dal punto di vista dello storico dell’arte, Dardel rimane piuttosto inclassificabile. Solo durante un breve periodo, tra il 1911 e il 1913, dopo essersi trasferito a Parigi, produsse opere in relazione diretta con ciò che facevano gli artisti che lo circondavano. Fece della pittura cubista con evidente intelligenza, dimostrando d’aver compreso totalmente ciò che Picasso e Braque avevano fatto qualche settimana o qualche mese prima – una comprensione unica, tenendo conto della sua giovane età. Tuttavia, nonostante conoscesse i due pittori, Braque in particolar modo, non ne rimase particolarmente impressionato. Preferiva del resto frequentare il circolo degli amici svedesi e americani, dove abbondavano gli scrittori ma dove i pittori difettavano.
Poco dopo, Dardel intraprese il cammino che lo avrebbe portato verso quella pittura egocentrica e “naivista” che avrebbe esplorato e sviluppato durante gli anni a venire. Egli non fu il solo artista svedese della sua generazione a scegliere il falso naïf come soluzione, ma fu l’unico a farlo in modo così particolare. La soluzione di Dardel era tipica di un uomo del suo milieu. Tra tutte le sfaccettature della sua personalità, Dardel conservava un senso estremo e assai forte dell’eleganza, quasi al punto da divenire per lui un handicap. Quando comprese che il cubismo non poteva fornirgli una base adeguata alla sua opera, reagì nel modo con cui abitualmente sfuggiva ai problemi, ritirandosi in sé stesso, nel proprio mondo. Tuttavia questo suo mondo popolato d’ombre e incubi era pure il mondo che lo circondava e nel quale doveva vivere. Per delicatezza sentì che doveva presentarlo come una fiaba, una storia da mille e una notte dai colori gai, dalle scene buffe popolate da personaggi eleganti. Dardel inventò così una sorta di surrealismo all’inverso, a propria misura: anziché utilizzare i simbolismi freudiani amati dal gruppo di Breton, Dardel teatralizza i propri sentimenti e ossessioni nascondendoli dietro immagini a prima vista neutre. Le tele di Dardel non servono a esplicitare un problema, bensì a tenerlo nascosto, o ad esorcizzarlo.
Il suo surrealismo non toccava l’inconscio in generale, i sogni degli altri, la politica o i problemi delle masse. L’arte di Dardel è strettamente limitata al suo mondo particolarissimo ed ai propri conflitti interiori. Si esita quindi a definirlo un surrealista: nonostante vivesse a Parigi, non aveva direttamente nulla a che fare con il gruppo di André Breton. Ma avrebbe esplorato tale stile se non fosse vissuto a proprio a Parigi?
Prima di giungere in capitale, nel 1910 Dardel aveva preso alloggio a Senlis, villaggio rurale non lontano da Parigi dove frequentava i corsi di Matisse; la sua pittura era ancora permeata dagli influssi neo-impressionisti di Gauguin, Van Gogh e soprattutto da Munch. L’incontro con il critico e collezionista tedesco Wilhelm Uhde, (il quale si innamorò perdutamente di Nils), che aveva appena finito di scrivere un saggio sul Doganiere Rousseau, dovette segnarlo profondamente. Uhde era di quei collezionisti come non ne esistono più: acquistava ciò in cui credeva, e non quello che dettava il mercato; credette perfino nella propria domestica, tale Seraphine Louis, pittrice dilettante che Uhde convinse a dedicarsi all’arte con grande successo (Seraphine è oggi un’icona della pittura naïf assieme al Doganiere, e recentemente è stato perfino realizzato un film sulla sua vita singolare [2]).
Dopo la ricerca tridimensionale cubista, con toni bruni spenti e pretese scientifiche, Dardel dovette sentire in sé l’urgenza del colore. Il capolavoro del periodo cubista, Rue à Senlis (1912), dove i colori spenti hanno la dominante, venne ripreso da Dardel nel 1913 con un’ottica diversa: la sobrietà degli edifici contrasta con i personaggi che diventeranno onnipresenti in primo piano: troviamo il dandy (lo stesso Dardel, in completo blu), ma, sulla scia di Baudelaire nel suo Trattato, riconosciamo il paesano, l’ufficiale, la donna, il bambino – come se il pittore volesse suggerire che d’ora in poi, per lui, saranno prima di tutto le singole persone, i loro rapporti, ad interessarlo. Tuttavia i suoi personaggi non caratterizzano un popolo, ma sono rappresentazioni di un unico uomo e dei suoi sogni: l’artista stesso.
[2] Seraphine, di Martin Provost, con Yolande Moreau (2010). Nel film appare anche il personaggio di Dardel, il quale incontrò e spronò Seraphine a continuare con la sua arte.
Visita a una signora eccentrica, 1922.
Una strada a Senlis (Rue à Senlis), 1912.
L’incontro con Rolf de Maré e i Balletti Svedesi
Non è necessario considerare Dardel in un contesto prettamente svedese. Egli visse in realtà tanto all’estero quanto in Svezia, essendo piuttosto una celebre figura internazionale, conosciuta grazie alla letteratura, ai film, alle cronache: un “brillante snob” che nascondeva un’acuta ipersensibilità dietro una scintillante armatura. In termini di creatività, è difficile trovare un altro artista che abbia saputo interpretare tale ruolo più intensamente di lui.
La situazione economica di Dardel non era affatto stabile fino all’incontro con colui che sarebbe stato non solo il suo mecenate ma soprattutto il compagno affezionato del periodo più importante e interessante della sua vita: Rolf de Maré, anche lui svedese coetaneo di Dardel, già famoso per la sua ambizione, il patrimonio famigliare a dir poco favoloso, e la sua inclinazione per i giovani talenti. De Maré aveva denaro, molto denaro, e la sicurezza e l’autorità che dà la fortuna ereditaria. Era anche un uomo d’azione, gran viaggiatore, dotato di un raro talento per scoprire negli altri quella creatività che a lui faceva difetto. Dardel era un ragazzo bello e sensibile, non molto sicuro di sé, ma dotato di una fantasia che De Maré era ridotto a contemplare e a collezionare. Era forse la sua mancanza di sicurezza che incitava Nils a scioccare, sfidare, in un irreprimibile bisogno di épater les bourgeois.
Il ruolo del dandy gli conveniva a meraviglia e gli procurava la maschera dietro la quale celare la propria timidezza, prendendo delle pose e rivaleggiando in eleganza, motti di spirito, sarcasmi e provocazioni con gli eleganti della cerchia del suo amico. La sua situazione finanziaria gli vietava di sortire dai ranghi e l’obbligava pubblicamente a conformarsi al modello eterosessuale. E, allo stesso tempo, la condizione di artista l’autorizzava a menare la vita dei giovani festaioli parigini, poiché un artista è al di sopra delle convenzioni e delle norme, gode di uno status a parte che lo dispensa dal piegarsi alle leggi dei comuni mortali.
Nel 1912, anno dell’incontro con De Maré, Dardel era appartenuto a diverse “sette” dandistiche: il circolo del Kattgreven (il “Conte dei gatti”), capo di una banda di giovani eleganti scapestrati di base a Stoccolma; venne poi il Circolo di Eliogabalo, il cui nome è già sufficiente a farci comprendere il tenore delle loro riunioni: blasonati, sangue blu, elegante arroganza, alcolismo ed eccentricità.
L’attitudine di distacco aristocratico di Dardel non veniva soltanto dalla classe sociale cui apparteneva la sua famiglia o dai circoli che amava frequentare. Fin dall’infanzia aveva saputo che il suo cuore non era così solido come avrebbe dovuto esserlo. Il sentimento di essere ovunque seguito dalla morte gli donava una superiorità specialissima. Ciò lo rendeva differente: sapeva che la sfortuna lo perseguitava, e che doveva giocare contro forze oscure, contro una vita più o meno breve scadenza, piena di terrore. L’alcol, come spesso accade in questi casi, finì per divenire il suo più intimo confidente.
Fortunatamente De Maré non contrasse mai la stessa follia di Dardel, il quale si era dato all’assenzio e agli alcolici a discapito della sua produzione artistica, ma al contrario seppe confortarlo e ridargli fiducia in sé stesso, anche grazie ai viaggi esotici che si permetteva di offrirgli: l’Algeria e Tunisi, la Spagna e Tenerife. Nel 1917 fuggirono dall’Europa sfigurata dalla guerra per approdare negli Stati Uniti: New York, la Florida, e poi Cuba, l’Arizona, il Messico e la Californa prima di fermarsi in Giappone. L’arte nipponica fu una grande scoperta per Nils, il quale rimase a Tokio sei mesi producendo una grande quantità di disegni e acquerelli, tra cui ricordiamo Eleganti in Giappone (1918), divertente e divertita messa in scena di due dandies europei disegnati in stile giapponese.
Eleganti giapponesi, 1918.
Jacques Hebertot, 1914.
Senza pietà, 1919.
Nel 1916 ritrasse De Maré in completo beige con gilet viola, dietro di lui una casetta di campagna in riva al mare. Il giovane “businessman” ha uno sguardo fiero e tenero al contempo, in uno dei ritratti più celebri della produzione del dandy-pittore.
La relazione con De Maré apportò al giovane Dardel più di quanto avesse sperato, anche se tra loro furono sempre alti e bassi, dacché entrambi avevano i loro rispettivi amanti (Dardel frequentava ragazzi e ragazze indistintamente), più o meno tenuti nascosti, finendo invariabilmente per riconciliarsi senza mai separarsi davvero.
Quando De Maré decise di fondare una compagnia di danza capace di competere con i Balletti Russi, Dardel dovette seguire da vicino l’avventura del Theatre des Champs-Elysées, acquistato dallo stesso De Maré e diretto dall’intellettuale Jacques Hebertot; ma l’efficacia dell’imprenditore svedese non si fermò al teatro: acquistò e fondò diverse riviste di danza atte a reclamizzare la compagnia di balletti che sarebbe diventata i Balletti Svedesi.
Per il nostro dandy pittore fu un’occasione unica: per il lancio dei Balletti Svedesi nel 1920, Dardel eseguì le scenografie e i costumi de La notte di Saint-Jean, prima collaborazione con il Teatro alla quale seguiranno moltissime altre. In questa, l’ispirazione è folkloristica e rinvia alla tradizione svedese di celebrare attorno a un pilone coperto di nastri colorati la notte più corta dell’anno. Eccezionalmente restano delle immagini filmate di quest’opera grazie allo splendido film L’Inhumaine (1923) del geniale regista francese Marcel L’Herbier: molte delle scene nel film permettono di vedere non solo i retroscena del Teatro degli Champs-Elysées dove appaiono manifesti dei Balletti Svedesi, ma soprattutto i ballerini de La notte di Saint-Jean mentre piroettano nei gioiosi costumi a quadri immersi nella scenografia di Dardel.
Per De Maré e il suo primo ballerino (e in seguito compagno) Jean Börlin, entrambi appassionati di arti figurative, i pittori sono i re dei Balletti Svedesi. Un commentatore dell’epoca ebbe a dire: « I Balletti Svedesi sono fatti d’intelligenza e di pittura più che di danza […] Né danza, né musica, né scenografia sono sacrificati ma restano subordinati a un insieme, in definitiva pittorico ». Grazie ad artisti come Léger (La creation du monde, musica di Milhaud), de Chirico (La Jarre, libretto di Pirandello e musica di Alfredo Casella), Picabia (Relâche, di Eric Satie), Cocteau (Les mariés de la tour Eiffel, musica del gruppo dei Sei), ed evidentemente Dardel, i Balletti Svedesi seppero eguagliare e a volte superare i Balletti Russi di Diaghilev, fino al 1925.
De Maré era anche proprietario della prima rivista di eleganza maschile degna di questo nome, Monsieur – revue des élégances, sulla quale non solo pubblicizzava il Teatro degli Champs-Elysées quale tempio della musica moderna (ed era vero), ma anche i Balletti Svedesi, grazie al ritratto che Dardel fece appositamente a Börlin in La danse siamoise (1919). Lo stesso Nils ne era occasionalmente illustratore, sebbene preferisse essere soggetto di alcuni articoli sugli “eleganti di oggi”.
Felice estate!, 1920, (bozzetto per la notte di Saint-Jean).
Thora von Dardel e gli “anni folli”
Mentre la sua relazione con De Maré volgeva al termine, l’artista iniziò a pensare di riposarsi e fondare una famiglia, ma nonostante le buone intenzioni si era visto chiudere diverse porte in faccia – fino a quando, nel 1919, non incontrò la baronessa Thora Klinckowström durante un viaggio in transatlantico, un incontro finalmente coronato dal successo. Nel 1921, dopo un attacco di broncopolmonite particolarmente violento, Dardel riconobbe nelle cure affettive di Thora qualcosa di più della semplice amicizia. I due si sposarono nel luglio dello stesso anno di fronte agli entusiasti amici Braque, Léger, Kisling, Satie e Lisa Duncan (figlia adottiva di Isadora), per citarne solo alcuni.
Gli anni Venti di Dardel non furono diversi da quelli di molti altri giovani scapestrati intenti a folleggiare nel benessere del primo dopoguerra francese: il divertimento pare senza limiti, la vita dei teatri e degli spettacoli è fiorente, i caffè e i ristoranti alla moda cambiano allo stesso ritmo degli «-ismi» e il nostro artista frequenta, tra gli altri, il Cafè du Dôme e il gruppo del pittore Pascin. Gli anni Venti per Dardel sono quindi intimamente legati a queste molteplici attività, nostalgicamente descritte da Cocteau – maestro di cerimonie chic al celebre Boeuf sur le Toit – e soprattutto da Maurice Sachs nelle sue due autobiografie.
I ritratti e gli studi dal vero cominciarono a prendere un posto importante nella sua produzione che annovera molteplici ritratti di amici svedesi e americani: Hemingway, Pound, Antheil, ma anche i “pariginizzati” Brancusi, Pascin, Picabia o i francesi come Baron, Creve, Cocteau e Soupault.
In questo periodo i dandies di Dardel non debbono più assistere, al centro di strani paesaggi fiabeschi e allucinati allo stesso tempo, all’evoluzione di curiose creaturine, pierrot impiccati, gatti seviziati, dichiarazioni d’amore e giochi infantili en plein air. Dardel Accolse il “ritorno all’ordine”, una tappa tipica degli artisti della sua generazione, ampiamente teorizzato da Jean Cocteau nel 1926, e che pare aver esorcizzato le sue paure e ossessioni. A volte sognava ancora paradisi perduti come quello dell’infanzia dove passa il venditore di sabbia (fiabesca personificazione del sonno) dall’ombrello gigante, portando con sé avventure di pellerossa, meravigliose regine, re magi e gatti con gli stivali.
Al bar, 1920.
La ragazza in bianco e il giovane in nero, 1919.
Nonostante la separazione, De Maré e Dardel rimasero ottimi amici e i loro rapporti commerciali continuarono a progredire. Dardel ottenne sempre più successo nei circoli di critica artistica parigina e svedese, e divenne un ritrattista alla moda. Mentre la vita mondana e artistica di Dardel procedeva a meraviglia, il suo matrimonio era invece prossimo a collassare: accanto ai ritratti mondani sono numerose le immagini di una coppia che si gira tristemente le spalle, rappresentazione naif della situazione coniugale del pittore. La rottura era infatti inevitabile, anche perché gli stili di vita dei coniugi non corrispondevano: Thora frequentava le star del cinema, mentre Nils si compiaceva di frequentare due mondi ben distinti: l’alta società gli faceva l’occhiolino, ma certe sere preferiva passarle nei bistrot bohemiens, tra pittori equivoci e dandies da strapazzo.
Thora non ignorava i gusti del marito in fatto di ragazzi, e si prese degli amanti: Raymond Radiguet fu uno dei primi. Forse fu proprio Thora ad ispirargli Il diavolo in corpo. Cocteau, ovviamente, la detestava con tutte le sue forze.
Il divorzio fu deciso nel 1932 e Dardel ne uscì moralmente distrutto. La sua tristezza non fece che peggiorare uno stato di cose già esistente, aggravato dal suicidio dell’amico Pascin nel ’28: « Dopo quest’avvenimento, era come se la gioia fosse fuggita via, in ogni caso nel nostro gruppo. Parecchie persone che fino ad allora si incontravano sovente, non si incontrarono più del tutto », racconta Thora von Dardel nelle sue memorie.
La depressione economica degli anni Trenta costrinse Nils ad abbandonare il suo atelier, e le richieste di ritratti si diradarono.
La sua salute peggiorava: diversi attacchi cardiaci fecero riemergere macabre figure nei disegni di questo periodo, e una serie di quadri dal titolo I becchini, o alla tua salute Nils vide la luce.
Tuttavia la generosità di Rolf De Maré e un parziale riassestamento finanziario gli permisero di intraprendere una lunga serie di viaggi in nord Africa: fu questo un periodo assai produttivo per Dardel, il quale passava mesi a ritrarre febbricitante la popolazione araba di Tunisi e Algeri, producendo almeno un centinaio di acquerelli in uno stile sorprendentemente maturo, quasi accademico. Una grossa mostra personale alla Konstall di Goteborg e un’altra retrospettiva a Lund ebbero un enorme successo. Gli scettici sono vinti, la critica unanime nel loro apprezzamento. Si parlò perfino di “dardelismo”, ma volendo giudicare ciò che ci resta come opere grafiche e pitture, gli ultimi anni di Dardel pieni di ritratti e paesaggi nati sul filo degli incontri casuali e dei viaggi, sono certo più sereni ma allo stesso tempo meno ricchi della produzione degli anni Dieci e Venti.
Quest’articolo è apparso per la prima volta in due puntante su “Stilemaschile” vol. 3 e 4, anno II (2014/2015). Per info: www.stilemaschile.it
Ragazza con torcia e cuore in fiamme, 1931.
Edita Morris, 1936.
Cissi Olson in Peer Gynt, 1936.
Messicana, 1940-42?
Il suo ultimo approdo è il Messico (1940-1942), paese che riuscì a suscitargli un nuovo balzo creativo. Indugiando sui ritratti delle genti, Nils scoprì con trasporto un calore nuovo, un’umanità che non gli era nota ancora. Ma non rinunciava comunque alle sue ambigue messe in scena, ai molteplici personaggi cui tanto era affezionato. Un dipinto come L’après-midi d’un chasseur de têtes ci mostra coccodrilli e giaguari, uccelli fantastici e tagliatori di teste ai quali una stilizzazione ripresa dall’antica arte figurativa azteca apporta qualcosa di inquietante: Dardel ha scoperto che l’antidoto alla civilizzazione comporta pure la crudeltà.
Nella primavera del 1943 Nils von Dardel, parigino svedese, muore a New York per arresto cardiaco a soli cinquantaquattro anni.
Non si può dire che il suo ruolo sia stato fondamentale nella storia della pittura europea. Come ci si aspetterebbe da ogni dandy che si rispetti, non era suo interesse rivoluzionare il mondo dell’arte ma semplicemente farne parte, conosciuto da un pugno di appassionati e sostenitori raffinati. Nel suo caso, però, tali sostenitori sono stati assai numerosi, tanto che ad oggi Dardel è considerato in Svezia una sorta di icona nazionale nel panorama della pittura nordica.
Nils von Dardel fu una bella figura nella brillante comunità intellettuale europea della prima parte del XX secolo: fragile e tenace, pieno di spirito. Assistette alla prima guerra mondiale, alla gigantesca rivoluzione asiatica, alla crisi economica del 1928-1932, ad un lento naufragio d’un mondo in cui era semplice vivere, per un uomo come lui. Dardel scomparve – per sua fortuna oseremmo dire – prima che un altro mondo sorgesse all’orizzonte dei tempi.