Bruges la Morta
di Georges Rodenbach, traduzione di Catherine McGilvray
Fazi Editore, 2016; pp. 105
web: fazieditore.it
La storia che racconta Rodenbach parte da un lutto: un uomo, Hugues Viane, si ritira nella cittadina di Bruges dopo la morte della moglie. L’identificazione tra la morta e la città è alla base del racconto, come lo stesso autore dichiara programmaticamente all’inizio: “è la città stessa che orienta l’azione, i paesaggi urbani non sono più soltanto fondali dipinti, ma prendono parte della storia”.
La piccola cittadina delle Fiandre, placida, acquosa, sopita eternamente tra i suoi canali, è qualcosa di più di un semplice scenario. In questo Rodenbach è assolutamente simbolista, non racconta grandi fatti ma solo sensazioni tramite dettagli, simboli, atmosfere. E Bruges è lo scenario perfetto per sotterrare ogni istinto vitale, ogni ricordo della vita e diventa lo specchio del cuore del protagonista. Il ricordo della moglie è tenuto in vita come un culto, concretizzato in quella treccia bionda che Hugues tiene sotto teca come una reliquia, intoccabile. La vita per lui è già finita e, fedele al ricordo della morta, continua i suoi giorni chiuso nella solitudine, di cui la città è dilatazione, recandosi a messa e pregando. Il fervore religioso soffocante e un po’ bigotto, l’incenso delle chiese, le processioni nelle stradine, i ponti secolari, i quais funerei, le campane che annunciano la messa, i pioppi lungo la riva, le strade deserte, le vecchie case, il beghinaggio, il campanile, è tra queste cose che il protagonista si muove guidando il lettore. Fino a che un giorno, nelle strade della stessa città, intravede per caso una donna in tutto e per tutto somigliante alla moglie morta, tanto da pensare di seguirla. L’incontro con la nuova donna determinerà una rottura nella vita di Hugues, fino ad una inaspettata conclusione.
Scritto nel 1892, apparve corredato da una serie di fotografie della città secondo i desideri dell’autore, ma più famosa è rimasta la copertina illustrata da Marin Baldo per l’edizione del 1914 e che Fazi ha intelligentemente usato per questa edizione del 2016. Uno dei capisaldi della letteratura decadente, capace di evocazioni simboliste come lo fu per artisti come Lucien Lévy-Dhurmer e Fernand Khnopff, è da poco stato ristampato e reso disponibile dopo anni di assenza di versioni in italiano.
Annamarie Schwarzenbach
Gli amici di Bernhardt, L’Orma editore, 2014; pp 192
La notte è infinitamente vuota, Il Saggiatore, 2014; pp 73
Dalla parte dell’ombra, Il Saggiatore, 2001; pp 416
Negli ultimi anni sono stati finalmente pubblicati, per la prima volta in italiano, alcuni racconti della scrittrice, giornalista e fotografa svizzera Annamarie Schwarzenbach.
Alla casa editrice L’Orma si deve la pubblicazione del suo romanzo d’esordio “Gli amici di Bernhardt”, un breve e veloce racconto che ha come protagonisti un’inquieta brigata di giovani artisti che, sul finire degli anni Venti, vivono con intensità i loro amori, desideri e turbamenti. Bernhardt, il ragazzo che studia musica e sogna di evadere trasferendosi a Parigi, è in realtà protagonista solo del titolo. Non c’è un vero protagonista se non la giovinezza, che pensa all’oggi e non vede il domani. Un racconto che si svolge come un flusso continuo, senza capitoli, senza organizzazione, senza limiti. Questi ragazzi sono la voce di una nuova epoca: “è innegabile che appartengano a una nuova generazione, non più a quella del dopoguerra che è rimasta arenata in un eterno sturm und drang, ma tuttavia c’è in loro una profonda inquietudine”.
Più lirico e per questo ancora più breve è “La notte è infinitamente vuota”, la seconda delle tre novelle parigine (Pariser Novelle). Fu scritto nel 1929, quando, come la protagonista della novella Ursula, anche Annamarie studiava alla Sorbona. Lo sfondo è la Parigi degli anni Venti: Ursula conosce un uomo, esce con lui, va alla Coupole dove ogni sera la ballerina Lena calamita sguardi e attenzioni. Ursula cerca una libertà che sia solo sua, ama Jacqueline, ma la famiglia lo intuisce e la distanzia.
Annamarie scrive con leggerezza e completo abbandono, senza costruzione, i suoi sono racconti di pura sensazione, in cui si rintracciano corrispondenze biografiche evidenti. Entrambi sono stati scritti durante il periodo della primissima giovinezza, quando la Schwarzenbach è anch’essa studentessa e, iscritta già all’università di Zurigo per studiare storia e letteratura, trascorre due semestri proprio alla Sorbona. Sono racconti ancora acerbi, irrisolti, pieni di paure e inquietudini, ma in fondo si sente una fiducia dell’esistenza ancora da venire. Le cose cambieranno dopo l’incontro con i fratelli Mann.
La Schwarzenbach, erede di una ricca famiglia di industriali svizzeri con forti simpatie naziste, conosce nel 1930 Erika e Klaus, figli di Thomas Mann, dichiaratamente anzi nazisti. L’amicizia con loro genera contrasti con la famiglia, soprattutto per il rapporto con Erika. Grazie a loro prende coraggio e inizia a pubblicare i suoi scritti. Per lei la scrittura corrisponde alla libertà dalle imposizioni familiari, che guardano con sospetto le sue aspirazioni e frequentazioni. Annamarie non nasconde la sua omosessualità, non accetta di adeguarsi. Fugge quindi ed inizia a viaggiare in Europa e in Asia (molti scritti e articoli di queste esperienze sono raccolti in “Dalla parte dell’ombra”), impara a fotografare, diventa lei stessa soggetto preferito delle sue amanti fotografe (Marianne Breslauer, Ella Maillart). Di una bellezza fredda e fragilissima, angelo ambiguo dal viso di ragazzino, diventa ben presto dipendente dalla morfina, Thomas Mann la definirà “un angelo devastato”. Straordinario simbolo di libertà, morirà per un incidente in bicicletta a soli 34 anni. Caduta nel dimenticatoio, negli anni ’80 l’editore svizzero Huber iniziò a ripubblicare le sue opere. Recentemente Il Saggiatore si occupa di
Il Malinteso
di Irene Nemirovsky, traduzione di Marina di Leo
Adelphi, 2010, 4ª ediz., pp. 190
Esistono scrittrici più importanti di Irene Nemirovsky e sicuramente anche più brave, ma poche arrivano alla sua delicatezza. La storia de “Il Malinteso” è di per se banale: durante una villeggiatura sulla spiaggia spagnoleggiante di Hendaye, una giovane donna, Denise, già madre e sposata con un ricco uomo d’affari sempre via per lavoro, si innamora di Yves Harteloup, scapolo in vacanza. L’amore nato d’estate è fresco e senza pensieri, la Nemirovsky ne descrive lo sbocciare sulle spiagge “di sabbia calda” fino allo scolorirsi, come se non resistesse il passaggio all’autunno, quando i due rientrano a Parigi. Apparentemente una storiella d’amore, di quelle che non resistono all’inverno e facili da vivere, così come da leggere, durante l’estate. Ma la protagonista, come la Nemirovsky, non cerca “la facile poesia di un romanzetto estivo”. Per chi lo può vedere c’è un’analisi più sottile, potremmo dire sociale, ma più propriamente epocale. Yves è uno dei “nuovi poveri”, la sua famiglia viveva nel lusso durante la Belle Epoque “era nato nel 1890, in piena fin de siecle, epoca d’oro in cui a Parigi c’erano ancora persone che potevano permettersi di non fare niente”. Con la guerra la sua famiglia perde il patrimonio, lui conosce il freddo della trincea, la fame, la malattia e nella Parigi degli anni ’20 è costretto a lavorare come impiegato, contando i soldi per vivere. La stessa guerra, invece, aveva portato fortuna al marito di Denise, che è ricca, libera e senza preoccupazioni. Il loro amore deve avere a che fare con le miserie e le piccole cose della vita quotidiana, come un ritorno alla realtà troppo brusco e duro. E quello che sembra un piccolo melodramma sentimentale, vira verso il più inaspettato crudo realismo.
Iréne Némirovsky, figlia unica di un ricchissimo banchiere russo, emigrò in Francia con la famiglia dopo la rivoluzione del 1917. Ebrea senza considerarsi tale e convertitasi poi al cattolicesimo, si sentiva innanzitutto francese, pur essendo russa di nascita. In Francia infatti si sposò e ottenne il successo letterario, prima di essere deportata perché ebrea e morire ad Auschwitz nel 1942.
“Il Malinteso” è il primo romanzo, scritto nel 1923 a diciotto anni e stupisce che pur così giovane, affronti così lucidamente un amore tanto delicato. Del resto dopo aver passato la rivoluzione e poi l’esilio, aveva vissuto già a sufficienza da arrivare a capire che la felicità ha sempre un gusto amaro, “ma era quella, la felicità!”.
Il Simbolismo in Italia
catalogo della mostra a Padova, Palazzo Zabarella 1 ottobre 2011-12 febbraio 2012
Marsilio Editore, 2011
Umberto Brunelleschi, Illustrazioni 1930-1949
di Giuliano Ercoli
Glittering Images, 1992
La mostra sul Simbolismo italiano del 2012 è il precedente più interessante della mostra sul Liberty italiano del 2014 e di quella sul Simbolismo a Milano di quest’anno. Utile per chi cerca di ricostruire un quadro completo della pittura italiana tra fine ‘800 e inizi ‘900.
Il libro di Umberto Brunelleschi, invece, abbastanza raro e uno dei pochi sull’illustratore toscano, raccoglie in un’edizione di ottimo formato una serie di tavole accompagnate da un breve testo di Giuliano Ercoli.