Spesso si dimentica, in nome di qualche curiosità esotica per paesi lontani come India, Africa o Cina, qualche bellissima realtà di italico folclore. E’ il caso di un paese come Scanno, incastonato nelle impervie e fredde montagne d’Abruzzo e noto, oltre che per il suo piccolo e sereno lago, anche per il costume tradizionale femminile.
Una sorta di noli me tangere si è impressa sulle donne di questo paese che da secoli, forse già dal XVII secolo, indossano tutte sempre e solo lo stesso abito. La moda e il suo cambiare veloce delle fogge e dei costumi non le ha toccate. Oggi le superstiti che ancora lo indossano come vero e proprio abito da tutti i giorni sono davvero pochissime e tutte anziane, ma fino a cinquant’anni fa questo costume, nero e semplice, era l’abito normale di tutte le donne scannesi.
Questa caratteristica pittoresca lo ha reso subito meta di viaggi soprattutto a partire dalla fine dell’Ottocento, anche per l’interesse antropologico e/o etnografico che poteva suscitare. La tradizione del costume locale si è perpetrata così a lungo anche a causa della chiusura del luogo, circondato da montagne e raggiunto da una ferrovia solo nel 1888, come ricorda Georges Herelle nelle sue “Notolette dannunziane”. Herelle, traduttore francese di Gabriele d’Annunzio, fu ospite del poeta in terra d’Abruzzo nell’anno 1896-7 e, insieme a lui e ad altri amici, tra cui l’antropologo Antonio de Nino, fece un piccolo tour della regione. Ebbe poi l’incarico di redigere una sorta di diario di viaggio, pubblicato appunto nelle “Notolette dannunziane”. E’ in questa occasione che il poeta studia le tradizioni e le caratteristiche di questi paesi e se ne ricorderà per scrivere “La fiaccola sotto il moggio” e “La figlia di Iorio”.
Il Paese dei fotografi
E’ difficile stabilire con certezza l’origine del costume muliebre di Scanno, alcuni ipotizzano un’origine orientale, altri longobarda. Simile a molti costumi dei paesi limitrofi e connaturato ad un tipo di vita pastorale, si sviluppò poi autonomamente a causa della chiusura del paese. I più antichi riferimenti sono del XVI e XVIII secolo, ma il costume subì sensibili trasformazioni nel 1800 fino ad assumere la connotazione moderna. E’ costituito prevalentemente da panni di lana neri, prodotti localmente, e si distingueva in una versione giornaliera e una festiva; tanta nera semplicità era ravvivata solo dall’oro dei gioielli, che segnalavano una maggiore o minore ricchezza della donna che li portava.
Vedere apparire queste donne tra le stradine del paese, pieno di bellissime chiese affiancate da portali barocchi, crea una visione in qualche modo metafisica che ben si presta ad essere immortalata. Questo forse ha fatto di Scanno uno dei paesi più belli da fotografare e infatti qui Herni Cartier Bresson, negli anni ’50, fece pochi ma famosissimi scatti in bianco e nero. Tra questi, quello alla chiesa di Santa Maria del Carmine ha fatto sicuramente la storia della fotografia. Bresson non era stato il primo e non fu l’ultimo: già negli anni ’30 Scanno fu fotografata da Hilde Lotz Bauer e negli anni ’50 verranno altri grandi fotografi come Mario Giacomelli, Renzo Tortelli, Gianni Berengo Gardin fino a Ferdinando Scianna,che per primo scattò foto di moda, donandogli una coté di estrema eleganza.
Hilde Lotz-Bauer, 1930
Henri Cartier Bresson, 1951Henri Cartier Bresson, 1951Mario Giacomelli, 1957-59
Ferdinando Scianna, 1999
Ferdinando Scianna, 1999
Ferdinando Scianna, 1999
I gioielli di Scanno
Un’altra delle cose che rende unica Scanno sono i gioielli realizzati in filigrana d’oro, oggetti preziosi che fanno parte dell’identità del paese e i cui primi modelli risalgono sicuramente al 1700, se non prima. Mentre i costumi sono ormai in via di estinzione, viva rimane invece la tradizione della filigrana d’oro, una tecnica di lavorazione che qui è divenuta quanto mai caratteristica. Come questa lavorazione sia arrivata in mezzo a queste montagne non si sa di preciso, si pensa che i gioielli furono importati a Scanno via mare da Venezia e da Sulmona che, già nel XV secolo, era famosa per l’arte orafa; altri pensano ad un contatto con le manifatture saracene, che influenzarono di fatti anche i tessuti; altri sostengono che l’arte orafa sia stata importata da Guardiagrele o da Pescocostanzo. Fatto sta che a Scanno più che altrove proliferò, fu integrato al costume e si radicò nel folclore locale.
La tecnica della filigrana fu in origine usata per la produzione di bottoni, divenuti talmente belli da svilupparsi poi in veri e propri monili. Si sono creati così, attraverso il tempo, alcuni gioielli-simbolo che hanno assunto un significato speciale. Tra questi:
Bottoniera: dodici bottoni in argento, posti sul corpetto del costume tradizionale;
Presentosa: forse il più famoso, nominato anche d’Annunzio ne “Il Trionfo della morte”: “Portava agli orecchi due grevi cerchi d’oro e sul petto la presentosa: una grande stella di filigrana con in mezzo due cuori”. Si tratta di una grande stella di filigrana con uno o due cuori centrali, un tempo donata dai genitori dello sposo alla futura sposa come pegno d’amore;
Cicerchiata: antica fede nuziale composta da una fascia decorata con granellini d’oro;
Circeje: grandi orecchini in lamina traforata a forma di navicella con pendenti di perle. Il lavoro traforato assumeva il viso di una Circe, che doveva incantare il maschio, sopra un piccolo gallo lo attirava con il suo richiamo;
Sciaquajje: orecchini a navicella semilunata in oro arricchiti con pendenti oscillanti, così chiamati perché mentre la donna sciaquava i panni facevano un suono caratteristico;
Chiacchiere: lunga collana a spighette d’oro cave e decorate a pressione, da rigirare intorno al collo;
Amorino: si tratta di un complesso ciondolo a spilla da regalare alla sposa, raffigurante un angioletto che scocca un dardo. E’ l’unico gioiello-simbolo ad avere un origine sicura: fu creato dall’orafo scannese Armando Di Rienzo negli anni Venti, trasformando un fermaglio passafilo utilizzato dalle donne durante il lavoro ai ferri.
I gioielli erano legati a momenti simbolici della vita come il corteggiamento, il fidanzamento, il matrimonio e venivano donati o dal fidanzato o dalla madre di lui alla futura sposa. Si trattava di pegni importanti, simboli carichi di promessa, devozione, volevano dire attesa, consacrazione. Le donne li indossavano non soltanto nei momenti importanti, ma nella vita di tutti i giorni, poiché il gioiello aveva un valore non solo di ornamento ma soprattutto apotropaico. In una realtà come quella abruzzese, altamente scaramantica e piena di simbologie atte a scongiurare il “condrammalucchie”, si credeva che questi amuleti fossero capaci di scongiurare malattie, malocchi e allontanare influssi maligni. E’ una realtà rurale, per certi versi primitiva, che D’Annunzio ben descrive nel dramma “La figlia di Iorio” e che i pittori abruzzesi del XIX secolo furono abilissimi nel raffigurare. Possiamo vedere donne che indossano i tipici gioielli nei quadri di Pasquale Celommi, Basilio Cascella e Francesco Paolo Michetti, il cui quadro “La figlia di Iorio”, che ispirò d’Annunzio per scrivere l’omonimo dramma, mostra una donna in fuga che lascia intravedere degli orecchini d’oro, le sciaquajje. Meravigliosi esempi di questi gioielli sono oggi conservati al museo delle Genti d’Abruzzo a Pescara, tra cui gli esemplari originali provenienti dalla modella che posò per “La figlia di Jorio” di Michetti. Mentre Celommi non raffigura che bonario folclore, nei dipinti di Cascella e Michetti invece i gingilli donano, addosso a queste donne dal ghigno malefico, quasi una connotazione ferina, contribuendo a creare un’immagine da strega, da creatura ancestrale.
Francesco Paolo Michetti, La figlia di Iorio (dettaglio), 1894. Palazzo Provincia, Pescara.
Disegno di F. P. Michetti
Sciacquajie, Orsogna, primi ‘800, esemplari originali provenienti dalla modella che posò per “La figlia di Jorio” di F.P.Michetti. Museo delle Genti d’Abruzzo, Pescara
Disegni di Basilio Cascella
di Basilio CascellaSiacquajje, Orsogna, fine ‘800. Museo delle Genti d’Abruzzo, Pescara Disegno di Basilio Cascella per la rivista “Illustrazione abruzzese” Basilio Cascella, Mietitrice
Pasquale Celommi, La Lavandaia (dettaglio). Polo Museale Civico di Giulianova, foto Leo De Rocco.
Di Rienzo, orafi da generazioni
La produzione orafa è oggi portata avanti da moltissimi orafi, tra cui i più famosi sono sicuramente i Di Rienzo. Questa famiglia, produce sin dal 1850 catenelle in oro, grappe e fermagli in argento che arricchivano le vesti delle donne del luogo. Armando di Rienzo, nel 1926 inventò, trasformando un fermaglio passa-filo, un nuovo ciondolo spilla che donò alla sua sposa. Era l’Amorino, il gioiello simbolo della moderna tradizione orafa scannese, talmente famoso da vincere anche un premio a New York. Moltissime sono le imitazioni, ma quello Di Rienzo è il solo autentico.
Chi visita Scanno oggi troverà i suoi discendenti: Armando, che nel piccolo negozio in pieno centro storico affianca alla vendita di gioielli una piccola esposizione museale con pezzi ottocenteschi di grande valore, tra cui i primissimi esemplari di bottoni in filigrana.
L’altro è Eugenio, appena fuori città, che mi ha aperto gentilmente la sua bottega. Eugenio è un vero appassionato di arte orafa, lo trovo di fronte al tavolo da lavoro circondato dagli attrezzi del mestiere. Ha imparato sin da piccolo da suo padre Armando, che ogni tanto si reca ancora in bottega dove lavora per passione. E’ lui che inventò l’Amorino e si divertì a creare moltissimi modelli nuovi in stile art nouveau.
Oggi il figlio Eugenio segue la sua strada, è lui il vero artigiano sperimentatore, appassionato creatore e anche collezionista di gioielli antichi. Si diverte a riprodurre modelli che suo padre aveva inventato negli anni ’20 come fibbie maschili, orecchini, bracciali, specchietti liberty e al contempo inventa e propone nuove cose, come i ciondoli fatti con il ricamo a tombolo. A questo unisce la produzione dei gioielli tradizionali, che realizza personalmente imponendo su di ognuno la sua firma E.D.R. Esposti nel negozio ci sono bellissime presentose sia in oro che argento, amorini con diverse pietre, orecchini sia sciaquajje che circeje. Molti sono anche i gioielli realizzati con i bottoni in filigrana, da bracciali a orecchini a anelli, lavorazione finissima e di grande effetto. Questo tipo di gioielleria non conosce mode e si radica nella tradizione locale determinando un nesso inscindibile tra luogo e oggetto. Si tratta di alto artigianato, una punta di eccellenza nella produzione tipica e regionale italiana troppo poco conosciuta ahimé se non dai locali, presso i quali ancora è viva la necessità di questi oggetti preziosi.
Sito e shop online di Armando di Rienzo: armandodirienzo.com
Sito (online soon) di Eugenio di Rienzo: www.eugeniodirienzo.it
Grazie a Eugenio di Rienzo.
Il laboratorio di Eugenio di Rienzo:tavolo da lavoro di Eugenio di Rienzosciaquajje e circejeAmorinoChiacchiere e cireje in oro tavolo da lavoro di Armando di Rienzoorecchini realizzati secondo un modello degli anni ’20bracciali e orecchini con il tipico bottone in filigranacollane di fidanzamento e amorinoanelli “cicerchiata”presentose in oro gioielli realizzati col ricamo a tombolo innestato su strutture in oro
Negozio storico Di Rienzo:
esposizione interna
Scanno oggi: