“Cercando di te in un vecchio caffè ,ho visto uno specchio e dentro ho visto il mare e dentro al mare una piccola barca per me… Ah che Rebus!”
Le parole di questa canzone di Paolo Conte danno il nome alla mostra “Ah che rebus!”, a Palazzo Poli, aperta fino all’8 marzo 2011.
Il rebus, gioco tra parola e immagine dall’origine antichissima, è qui il protagonista di un percorso che si articola lungo cinque secoli di storia per ripercorrere e mostrare il rapporto tra arte e enigmistica .
Uno scambio che è sempre passato inosservato e scopriamo invece inaspettatamente come abbia interessato e influenzato tantissimi artisti da Leonardo a Agostino Carracci fino ai più moderni video-rebus di artisti contemporanei.
Una mostra che parla di come le parole diventano immagini e le immagini diventano cose, di quello che in fondo è un gioco di e con le parole che può arrivare a mettere in crisi il significato del linguaggio stesso.
Le curatrici Antonella Sbrilli e Ada De Pirro, con la consulenza di Stefano Bartezzaghi, hanno raccolto più di 100 opere dalle stampe di Stefano della Bella e Giuseppe Maria Mitelli alle vignette per la Settimana Enigmistica di Maria Ghezzi, dai Bagni Misteriosi di De Chirico ai video-rebus, dalle pagine antiche dei manuali di imprese rinascimentali ai primi rebus per riviste fino alle parolibere futuriste, costruendo così una mostra inusuale che, prima ancora delle opere, espone un concetto.
(Rebus sull’amore, Stefano Della Bella 1647-1649)
Il rebus nell’arte si è rivelato un campo davvero vasto, un labirinto che rischiava di allargarsi fino alla dispersione. Ci racconta come è nata la mostra e, se c’è stato, quale filo di Arianna avete usato per non perdervi?
La mostra è nata dall’interesse per le vignette dei rebus: una produzione che è considerata minore e che però non è la sola produzione minore nel panorama artistico italiano. Di tanti tipi di immagini ci si è occupati negli ultimi decenni, dai fumetti alle figurine, dalle illustrazioni ai santini, ma al rebus non era mai stata dedicata una mostra e gli studi pubblicati (come quelli importanti di Peres e Bosio) hanno un taglio di storia dell’enigmistica: mancava una considerazione di questi disegni dal punto di vista artistico, nel loro intreccio con la storia dell’arte.
A partire dal 2001-2002 ho dedicato alcuni corsi al gioco linguistico in arte, tema approfondito in seminari, ricerche di facoltà e tesi di laurea. La prima tesi è stata di una studentessa, che mi fa piacere ricordare, Francesca Murri, seguita dalla ricerca di Ada De Pirro sulla serie dei dipinti Rebus di Tano Festa, mai studiati nella loro derivazione da fonti enigmistiche.
Grazie a queste ricerche s è sviluppato un rapporto interessante con i collezionisti d’enigmistica, in particolare con il romano Franco Diotallevi, che ci ha aperto la collezione sua e di altri appassionati, mettendoci a conoscenza di un database con tutti i rebus italiani, utilissimo per identificare gli originali delle vignette usate da Tano Festa.
Infine siamo arrivate al gotha dell’enigmistica italiana: la redazione e la direzione de “La Settimana enigmistica”, prima con un po’ di riserva e poi con sempre maggiore collaborazione si sono adoperate nella ricerca delle vignette originali da esporre in mostra.
Durante la messa a punto dell’esposizione, abbiamo cercato di non allestire una storia del rebus nell’enigmistica e neanche una storia dell’illustrazione del rebus: svolgere questi due temi nella loro interezza avrebbe portato a organizzare due mostre parallele. Abbiamo invece cercato di mantenere come filo di Arianna il rapporto del rebus con l’arte, tenendo in equilibrio i due piani.
(Rebus, Tano Festa 1979)
Un tema poco studiato ,quindi ,questo del rebus, forse perché ritenuto minore. Eppure sembra aver interessato ,in vari modi, grandi artisti da Leonardo a Magritte passando per Lorenzo Lotto, Agostino Carracci, De Chirico e moltissimi altri.
Secondo lei c’è una linea che unisce tutte queste esperienze ,o meglio, che cosa ha il rebus che attrae gli artisti?
L’attrazione e il rapporto fra artisti e rebus è diverso da periodo in periodo, perché un conto è parlare del ‘400 e del mondo delle imprese rinascimentali, un conto è parlare del ‘900 e delle ricerche delle avanguardie.
Una cosa di cui abbiamo tenuto conto, durante l’allestimento della mostra, è stata proprio quella di non anteporre il concetto di rebus alle opere, di non racchiudere le opere dentro l’etichetta del rebus perché altrimenti rischiavamo di fare delle forzature.
Quindi rovesciamo i termini del problema: non tanto cosa attrae del rebus gli artisti ma quanto le varie esperienze artistiche possano rivelare del dispositivo del rebus. Il rebus infatti è, prima di tutto, un meccanismo basato sulla possibilità di alternare scrittura e disegno, parola e figura.
L’obiettivo è stato riconoscere l’idea di rebus, cioè lo scambio di parola e immagini, in tante esperienze e produzioni artistiche che non si chiamavano rebus.
(Ogni cosa vince l’oro, Agostino Carracci 1557-1602)
Una tappa nella storia del rebus si riscontra nelle imprese, sorta di stemmi formati da una figura e un motto. Era tipico dei nobili o delle famiglie importanti mentre oggi è usato spesso negli loghi dalle aziende.
Maurizio Calvesi, presente all’inaugurazione, ha svelato il suo interesse da giovane per i giochi di parole ,con una certa ritrosia.
Come è avvenuta ,secondo lei , questa discesa del rebus da gioco di derivazione nobile e erudita a passatempo relegato agli angoli dei giornali?Come spiegare ,per dirla à la Duchamp, questo sgocciolamento?
Non è detto poi che anche nel passato il gioco fra parola e immagine fosse posto tanto in alto: anche alcuni libri di imprese e di stemmi sono stati scritti, in un certo senso, nel “tempo libero”, considerati anch’essi una distrazione giocosa.
Agisce nella nostra cultura anche un pregiudizio nei confronti della dimensione del gioco, che di fatto è stato superato nel ‘900 grazie agli studi prima di Huizinga poi di Caillois e di altri studiosi interdisciplinari. E’ nel corso del XX secolo che il tema del ludico ha acquistato un peso e una dignità e si è rivelato uno strumento per capire meccanismi comunicativi, espressivi e psicologici, tanto che adesso nessuno pensa che il gioco non sia (anche) una cosa seria. E anche Maurizio Calvesi, dopo tanti decenni, è tornato volentieri con la memoria ai suoi esordi enigmistici, a cui si può collegare, con le dovute modifiche, il piacere per la decifrazione delle immagini.
(logo IBM 1984)
Questo ci suggerisce un’altra riflessione: come ormai l’arte si collochi in una dimensione di svago, nei tempi morti, nel tempo libero, anche di scarto, ma forse l’unica dimensione libera.
E’ Caillois che nel suo saggio “I giochi e gli uomini” parla di quattro modalità di gioco: agon, hazard, mimicry, ilinx che potrebbero essere del tutto adatte a classificare l’arte contemporanea.
Il gioco è davvero l’unico luogo rimasto in cui l’arte può essere libera?
Tutto dipende dal grado di consapevolezza delle persone di stare – come direbbe Wittgenstein – continuamente dentro un gioco , un gioco linguistico ma anche sistemico e forse la libertà non è data mai neanche nell’arte, però guai a pensare che non ci sia!
Il tema del gioco evidentemente conduce verso riflessioni complesse, che riguardano la conoscenza, il linguaggio, il comportamento, le relazioni fra le persone e anche la natura dell’arte contemporanea, con i suoi aspetti concettuali, autoreferenti, classificatori.
E’ stato davvero suggestivo il confronto di un’opera di Magritte “La voce del vento” e un’illustrazione del trattato “Les Bigarrues” di E. Tabourot. Non si parla di derivazione certa, sebbene sembri che l’opera di Tabourot sia stata abbastanza diffusa in certi ambienti surrealisti e da qui sarebbe anche arrivata alla conoscenza di Gastone Novelli .
Sembra che i periodi in cui il rebus sia stato più diffuso siano il XVI – XVII e il XX, secondo lei è un caso o c’è un legame tra queste due periodi?
Ada De Pirro: La ripresa di vari aspetti del manierismo e del barocco ha molto attratto gli artisti delle avanguardie dopo la seconda guerra mondiale, proprio per la consapevole disillusione di non poter raccontare in maniera positiva il mondo preferendo alla descrizione naturalistica l’artificiosità propria di quella cultura. E’ interessante notare che lo stesso contesto contribuì, tra Cinquecento e Seicento, a dare alla forma rebus una spinta propulsiva abbastanza forte, in Italia, Francia e nel resto d’Europa.
Nel ‘900 il rebus si ricollega a questo filone culturale, ad esempio, i surrealisti francesi si sono molto interessati a tutta la letteratura esoterica e alchemica dei secoli passati e sicuramente questo libro delle Bizzarie è stato letto. Infatti ne abbiamo trovato traccia in altri artisti di ambito surrealista (René de Solier lo ha citato) ed era apprezzato proprio per questo mondo artificioso ma anche bizzarro che poteva evocare, per i surrealisti, una serie di associazioni mentali e oniriche.
E poi Gastone Novelli è il tramite che lo fa conoscere in Italia, almeno stando a quello che gli studi oggi stanno appurando, non sembra che prima di lui qualcun altro lo conoscesse.”
(La Voce dei venti, Magritte 1928)
Stefano Bartezzaghi, anche lui presente all’apertura, nel suo “L’orizzonte verticale” ha spiegato come il cruciverba non poteva che nascere a NY negli anni ’10, risentendo anche della geometria della città, nonché “di tutto ciò che ha costituito l’orizzonte del moderno, dalla catena di montaggio al cubismo, dal giornalismo dei reportage alla musica jazz.”
Invece una certa atmosfera da enigma sembra essere presente nella pittura italiana sin dal quattrocento nelle opere di Piero della Francesca, Bellini, Leonardo,come notava già Roberto Longhi.
Possiamo dire quindi che il rebus ha un’origine italiana?
Sì, come la pittura metafisica, del resto. E’ un modo di dipingere le cose chiare e distinte, in uno spazio organizzato come una finestra prospettica, tipico del Rinascimento italiano.
Questa tradizione si nota nelle vignette di Maria Ghezzi, una disegnatrice che ha una solida formazione pittorica e un gusto per l’atmosfera sospesa che risente del realismo magico e della pittura post metafisica. E’ una tradizione radicata in Italia, che fa sì che il rebus si sviluppi da noi in un certo modo, diversamente che in Inghilterra o in Francia. Questo anche per motivi fonetici, poiché in italiano pronunciamo l’intera parola, mentre per esempio in francese valgono le omofonie (uno stesso suono ha diversi significati). Similmente nella cultura inglese: si pensi a Lewis Carroll che nelle lettere a Georgina Watson sostituiva alcune parole con dei disegni.
(Disegno di Maria Ghezzi su un dipinto di Corcos)
(Lettera di L. Carroll a Giorgina Watson 1870 circa)
Il rebus colpisce per la sua natura ambigua, per la sua capacità di mostrarsi doppiamente come marchingegno criptico e insieme giochetto ingenuo.
Se da una parte rappresenta la ricerca di un senso, che può diventare Il Senso, allora lo scopo è quello di “ricomporre in uno ciò che è frammento e enigma e orrida casualità”(F. W. Nietzsche).
D’altra parte però rimane un gioco, un passatempo senza scopo e “il passatempo è un ricorso al tempo passato cioè alle forme di altri tempi che per questo sono ormai stati assimilati e quindi nel presente non costituiscono problema ma occasione di svago” (H. M. McLuhan).
Laddove il senso diventa il Senso dell’esistenza e il passa-tempo è ciò che rimane del tempo-passato ecco che il gioco assume serietà e diventa metafora della condizione dell’arte (e non solo) contemporanea, se si pensa alla frammentarietà e all’ipertestualità in cui oggi siamo immersi.
Né è sicuro che ci sia sempre una soluzione, ma del resto nessuno ha stabilito che ce ne sia una sola o, molte o, paradossalmente, nessuna.
Sembra giusto concludere con una frase di Alighiero Boetti: “Penso di essere diventato bravo a inventare i rebus, ma poi non sono capace di risolverli.”
Lisa
articolo per DudeMag
1 Commento a “AH CHE REBUS! : intervista alle curatrici”
La soluzione del rebus è “parche pensionate”