Nessuno lo sospetterebbe eppure a Roma si trova l’ultimo ciclo di affreschi della pittura moderna. Fu eseguito da Guido Cadorin tra il 1926-27 e si trova nel salone-ristorante di quello che oggi è l’albergo Grand Hotel Palace in via Veneto e che prima si chiamava Hotel Ambasciatori. Questo grande e schivo maestro della pittura era di origine veneta, né questo ci stupisce, giacché la forza evocativa dei suoi affreschi si ricollega direttamente ai grandi frescanti Veronese e poi ancora i Tiepolo. Di questa tradizione lui si presenta come ultimo discendente.
Un affresco di silenzio
E’ rappresentata una festa e il pittore, osservatore silenzioso e attento, ne raffigura i vari invitati e infine, nell’angolo, lui stesso. Chi sono? Compaiono i proprietari dell’albergo e committenti degli affreschi Gino Clerici, sua moglie Maria Clerici Bournens e il figlio Gustavo; Marcello Piacentini architetto di grido all’epoca e autore dello stesso albergo con la sua famiglia; Gio Ponti che si affaccia con sorriso ironico da una colonna; Margherita Sarfatti, all’epoca già amante del Duce, con sua figlia Fiammetta.
Cadorin rappresenta la dolce vita romana di quegli anni e la rappresenta come un festa senza fine. Quello che mostrano gli affreschi è quello che accade in quel salone e, in questo modo, eternando l’effimere sensazioni di ciò che invece è destinato a durare una notte.
“La festa notturna ideata da Guido Cadorin, come assai spesso avviene nei ricevimenti, è un raduno di figure che non hanno niente da dirsi. E’ così, è proprio il silenzio ad essere il vero protagonista di quella festa notturna.” [1] Così li descrive perfettamente Fabrizio Clerici, figlio minore del proprietario Gino, e lui stesso ben noto artista, che all’epoca era troppo piccolo per figurare tra gli spettatori di una festa mondana e così il maestro Cadorin, per rimediare, gli regalò un suo disegno di un putto tenuto in mano da un angelo.
Chi era Guido Cadorin?
L’hotel, che all’epoca si chiamava Albergo degli Ambasciatori (oggi Grand Hotel Palace), fu inaugurato il 16 febbraio del 1927 in presenza del podestà di Roma e di una folla entusiasta. Sembrava destinato ad un lustro perenne, luogo privilegiato per accogliere il jet set internazionale di passaggio nella capitale. Perché poi fu dimenticato? E chi era Guido Cadorin e come fu scelto?
Il maestro veneto aveva già dato prova di bravo frescante, forse uno degli ultimi del ‘900, nella chiesa della Visitazione di San Vito al Tagliamento nel 1910 e poi nel ciclo di affreschi a Col San Martino nel 1921 e ancora, tre anni dopo, nella cupola della nuova chiesa di Moriago della Battaglia. Nello stesso anno, era il 1924, Gabriele d’Annunzio lo scelse come decoratore ufficiale del Vittoriale e in effetti sono sue le decorazioni della stanza del Lebbroso. D’Annunzio era rimasto molto colpito dalla bravura di Cadorin dopo aver visto il suo lavoro a Villa Papadopoli a Vittorio Veneto, per la quale il maestro aveva disegnato i mobili, i tessuti, le lampade e gli elementi ornamentali, insomma un’Opera d’Arte Totale (Gesamtkunstwerk) che purtroppo, dopo la vendita della villa, è andata completamente persa. Rimane dunque, come unica prova di pittura laica di Cadorin, a parte le decorazioni del Vittoriale, proprio questo ciclo di affreschi all’Hotel Ambasciatori che però furono, ahimé, anche il suo canto del cigno.
L’esempio è il Veronese di Villa Maser, così Cadorin crea uno spazio immaginario prolungando con balconi e portici di colonne tortili lo spazio della festa, pervenendo ad una fusione impossibile tra la tradizione del barocco veneto e la grazia del liberty. Con un’originalità incredibile, riesce a trasportare questa tradizione sei e settecentesca all’epoca moderna, né se ne scorge anacronismo, adattandola invece perfettamente al tempo, al luogo, ai personaggi. Pochi altri artisti dopo di lui hanno provato ancora l’affresco e, se si esclude Mario Sironi negli anni ’30 con gli affreschi nell’Aula Magna de La Sapienza o ancora più tardi Gio Ponti al Liviano dell’Università di Padova nel 1936-40, possiamo dire con certezza che quelli di Guido Cadorin sono davvero l’ultimo ciclo di affreschi privati della storia dell’arte.
A riempire la scena ecco i personaggi più importanti dell’epoca: nel grande affresco dietro il bar spicca al centro Umberta Resinelli, alla sua destra la signora Strainchamps e alla sua sinistra Valeria Piacentini, nipote dell’architetto. All’estrema sinistra e all’estrema destra, dietro le colonne, si vedono Roberto Papini e Marcello Piacentini. Su altre pareti si vedono il pittore Felice Carena con la moglie, l’architetto Melchiorre Bega che fu anche colui che suggerì Cadorin, la contessa Pongelli figlia del direttore del Messaggero, la signora Venturi e altri diplomatici, ambasciatori e donne eleganti. In un angolo, accanto alla suocera di Gino Clerici, Antonietta Bournes Seves, Guido Cadorin raffigura se stesso nell’atto di firmare il dipinto.
La damnatio memoriae
In extremis volle essere raffigurata tra i presenti anche Margherita Sarfatti insieme alla figlia Fiammetta perché desiderava “passare all’immortalità”. Ed è forse proprio questa vanità che determinò la damnatio memoriae che gli affreschi subirono poco dopo il loro disvelamento. Quattro mesi dopo l’inaugurazione, la direzione dell’Albergo, decise di ricoprirli con un velo di seta senza apparenti ragioni. Jean Clair [2] ipotizza che la motivazione di un occultamento così impietoso sia legato ad un volere del Duce che, nel ’27, non aveva più nei riguardi della Sarfatti un’ammirazione così devota e di certo non gradiva venisse messa in mostra così pubblicamente. Infatti gli affreschi furono riscoperti solo dopo la guerra.
“Nel dicembre 1965, amareggiato e dimenticato dalla maggior parte dei contemporanei, disprezzato dall’establishment artistico italiano dell’epoca (l’anno precedente il Gran Premio della Biennale di Venezia era stato conferito a Robert Rauschenberg), in quella Venezia tanto amata e dove occupava, all’Accademia di Belle Arti, la cattedra di pittura, Guido Cadorin scriveva a Eugenio Scalfari, direttore de “L’Espresso”, una lettera in cui chiedeva giustizia. Morì quasi del tutto dimenticato, genio solitario di cui oggi si riscopre, a poco a poco, la grandezza”[2].
Così ne parla Jean Clair nell’articolo dedicato a Guido Cadorin nella rivista FMR del 1988 [2] grazie alla quale anche io sono venuta a conoscenza di questo capolavoro dimenticato e nel quale ho percepito anche una nota di mistero. L’affresco di fronte alle finestre rappresenta quello che potrebbe dirsi un ritrovo notturno con al centro una fontana a forma di donna. E infine, sul soffitto, dorme tra due valve una donna nuda, una donna-conchiglia su cui sorvola uno spirito bianco.
Fonti:
[1] Rendez-vous agli Ambasciatori di Fabrizio Clerici in FMR n°60
[2] Lo Sconosciuto della festa di Jean Clair in FMR n°60
Un affresco di silenzio
Official site: grandhotelpalacerome.com
6 Commenti a “Guido Cadorin at Grand Hotel Palace, Roma”
Volevo solo far notare una piccola inesattezza: il progettista dell’albergo fu Busiri Vici e non Marcello Piacentini.
Ciao Fabio,
dalle informazioni che ho (ricavate da FMR n° 60 e dal sito dell’hotel) so che l’architetto progettista fu Marcello Piacentini, ritratto infatti anche nell’affresco di Cadorin. Dove ha trovato che fu Busiri Vici a progettarlo?
Grazie per il commento.
L’architetto è stato Piacentini. In via Veneto sorgono uno accanto all’altro due hotel dal nome simile che posso ingenerare confusine: questo, il Grand Hotel Palace (al tempo di Piacentini Hotel degli Ambasciatori) e il Palace progettato da Carlo Busiri Vici fra il 1906 ed il 1907. Oggi l’hotel di Busiri Vici si chiama Ambasciatori Palace per il fatto che dal 1946 e per molti anni è stato la sede della biblioteca dell’Ambasciata Americana. Viene riaperto con l’attuale nome solo nel 1993.
Questo non lo sapevo! Grazie per avermelo fatto scoprire 🙂
Splendido articolo. Una solo precisazione. L’albergo oggi si chiama Grand Hotel Palace.
Vero 🙂
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