“Tutto mi intenerisce e tutto mi ferisce.
Vivo in ogni cosa, e sono a ogni cosa estraneo.
Sento in tutte queste creature il mio medesimo sangue,
e sono infinitamente lontano da loro.
E la vecchia casa è pur sempre impregnata della mia vita puerile
come se pur ieri ne fossi uscito fanciullo.
Verso sera mi sentivo così stanco che ho chiesto di rimanere solo ne la mia stanza.
Mi sono seduto sull’inginocchiatoio, di cui ti ho parlato una volta;
sul vecchio inginocchiatoio delle mie preghiere infantili.
Ho appoggiato il capo alla sponda del letto;
e nei rumori della casa, nei rumori della strada,
ho udito udito cose che non potrò mai raccontare…”
Chi ha già visitato il Vittoriale non si aspetti di vedere, in questa casa, la stessa ricchezza degli arredi, la varietà dell’accumulo collezionistico o lo stesso gusto per l’horror vacui per cui è famoso il Vate. Se è così anzi ne rimarrà deluso. Stiamo parlando della casa in cui Gabriele d’Annunzio nacque e trascorse l’infanzia, almeno fino agli 11 anni, quando venne iscritto alla prima classe ginnasiale presso il Real Convitto Cicognini di Prato.
E’ una casa di provincia, dove si respira ancora oggi una certa ristrettezza, tipica di certi ambienti piccolo borghesi di fine ‘800. Niente sfarzo, nessuna opera d’arte eccezionale, solo ricordi, suggestioni che si acuiscono leggendo le descrizioni oniriche che d’Annunzio fa nel Notturno, dove immagina-ricorda stanza per stanza la casa natale.
Il visitatore attento non mancherà di sentire un senso di malinconica tristezza sapendo che, di quel che vede, quasi nulla è originale, essendo stata la casa saccheggiata e deturpata durante la seconda guerra mondiale.
La casa
D’Annunzio rimase sempre legatissimo a questa casa (e all’Abruzzo in generale), sacra per lui come un “Santuario” e vi tornò spesso per rivedere sua madre Luisa che amava moltissimo. Dopo la morte della madre, preoccupato per le condizioni di decadenza in cui versava, si preoccupa di curarne il restauro e incarica il cognato Antonio Liberi. Il suo desiderio è ripristinare al piano terra le scuderie, il pozzo, la loggia e il cortile e sopratutto conservare la stanza “sacra” della madre, restaurarne l’alcova e le volte dove il padre aveva fatto dipingere i titoli delle sue prime opere. Scontento dei restauri del Liberi, il quale aveva fatto rimuovere i tre gradini che portavano alla stanza della madre, trasferisce l’incarico all’architetto del Vittoriale e suo amico Giancarlo Maroni.
Purtroppo, durante la seconda guerra mondiale, la casa ha subito un sopruso gravissimo: quasi tutti gli oggetti originali sono stati trafugati, le decorazioni in molta parte danneggiate. Quel che oggi possiamo vedere è una ricostruzione suggestiva con arredi d’epoca e pochi cimeli, che vuole creare la sensazione di quello che doveva essere l’ambiente in cui d’Annunzio visse i suoi primi anni di vita.
La famiglia
La madre, Luisa De Benedictis nasce ad Ortona a Mare nel 1839. A venti anni conosce Francesco Paolo Rapagnetta d’Annunzio che sposa il 3 maggio 1858 e i due sposi si trasferiscono nella casa di Corso Manthonè. In questa stessa casa Luisa d’Annunzio morirà il 27 Gennaio 1917 e il Poeta febbricitante si precipiterà a Pescara per partecipare ai funerali in divisa da capitano. Di lei avrà sempre al Vittoriale, nella Stanza del Lebbroso e accanto al letto, la sua foto su cui aveva scritto i versi del Poema Paradisiaco “Non pianger più. Torna il diletto figlio alla tua casa”.
Col padre invece ebbe sempre rapporti contrastanti. Di lui disse:
“ Mio padre è là corpulento e sanguigno, un poco ansante, con quel suo sguardo un poco torvo in cui passava talvolta uno strano ardore come di fosforo che vi s’accendesse.
M’è vicino e m’è lonatano, è fatto della mia stessa sostanza e m’è sconosciuto. Ho potuto vivere lungo tempo discosto da lui, talvolta ho potuto avversarlo, talvolta perfino dimenticarlo…
Spirito tirannico quant’altri mai, egli aveva da tempo abdicata la sua autorità sopra me, solo attento a vigilare le mie tendenze e a spiare l’ombra dei miei sogni.”
Il padre si chiamava Francesco Paolo Rapagnetta. Nato nel 1838 era stato adottato da una sorella della madre Rita, Anna Lolli, che aveva sposato in seconde nozze, dopo la morte del primo marito, un facoltoso commerciante ed armatore, Antonio d’Annunzio. Camillo Rapagnetta e Rita Lolli cedettero il sesto figlio agli zii. Il Poeta avrebbe dovuto chiamarsi dunque Rapagnetta, come suo padre e suo nonno Camillo, ma in seguito all’adozione del padre per parte dello zio materno, ne eredita il cognome d’Annunzio. A questo punto, secondo logica, il nome del padre sarebbe dovuto essere Francesco Paolo Rapagnetta d’Annunzio, ma non esiste nessun documento in cui appaiano i due cognomi.
Francesco Paolo, corpulento signorotto di provincia che amava i piaceri e le belle donne, non mancò di sostenerlo ancora giovane, pubblicando a sue spese le due edizione di Primo Vere. In seguito però i rapporti si logorarono e culminano in un allontanamento doloroso: il Poeta tornerà a Pescara per la morte del padre nel 1893, ma a sepoltura avvenuta e per occuparsi della famiglia e della madre, ormai ridotta in miseria e oberata da debiti e ipoteche contratti dal Padre.
D’Annunzio aveva anche tre sorelle e un fratello: Anna (1859) sorella molto amata dal Poeta; Elvira (1861); Ernestina (1865) che sposerà Antonino Liberi, noto architetto realizzatore di molti edifici in stile eclettico e liberty a Pescara e in Abruzzo da cui avrà una figlia, Nadina, nipote tanto amata dal Poeta e chiamata Nada Moscada per le molte lentiggini. Il fratello Antonio d’Annunzio (1867) viene ricordato per la sua vocazione per la musica, come compositore e direttore d’orchestra. Nel 1901 si trasferisce negli Stati Uniti dove vive dando lezioni di pianoforte e suonando l’oboe in un’orchestra. Qui sposa Adele d’Annunzio, omonima ma non parente, dalla quale ha due figli.Nel 1929 con la crisi di Wall Street perde tutto il denaro investito in borsa e per questo inizia a chiedere prestiti al Poeta che dapprima lo aiuta inviandogli cospicue somme, ma poi stanco per le continue richieste, si rifiuta di incontralo al Vittoriale.
Official site: casadannunzio.beniculturali.it . Tutte le descrizioni delle stanze sono state prese dal sito ufficiale.
Facciata:
Outside
Sulla facciata si leggono alcuni versi tratti dalla poesia Consolazione, contenuta nel Poema Paradisiaco:
“Non pianger più. Torna il diletto figlio
a la tua casa. È stanco di mentire.
Vieni; usciamo. Tempo è di rifiorire.
Troppo sei bianca: il volto è quasi un giglio.”
Fu composta l’8 gennaio 1891, in occasione di un ritorno di d’Annunzio nella casa natale. Accanto alla targa si vede il balconcino della stanza dei genitori.
Il cortile:
courtyard
“Penso, non so perché, al suono dell’antica mia voce quando, fanciullo, sollevavo il coperchio ferrato del pozzo e, sporgendomi dalla sponda di pietra solcata dalla corda, gittavo un grido verso il fondo ove intravedevo il mio viso nell’acqua che luceva.
Ho negli occhi quel suono d’argento assordito, in cui tremava la levità del capelvenere.
Richiudevo il coperchio con cautela, perché l’urto del ferramento non ricoprisse il mio grido segreto.”
da Notturno
L’ingresso:
The entrance
Nell’ingresso si trovano oggi alcuni cimeli della sua infanzia trascorsi a Pescara, corredati da fotografie, lettere e anche il diploma di Licenza liceale. E’ temporaneamente esposta qui una bellissima tela di Francesco Paolo Michetti, proveniente dal Museo Nazionale d’Abruzzo de L’Aquila le cui opere, dopo il terremoto del 2009, sono vacanti ed esposte in altre sedi.
Questa tela fu apprezzatissima da d’Annunzio, il quale scrisse in una lettera all’amico Paolo de Cecco “Quei Morticelli li ho qui nella mente e non mi escono più, quell’ebrezza sovrumana di azzurro che fa pensare!” scorgendovi “la prima manifestazione potente del dolore”. Michetti fu grandissimo amico di d’Annunzio, il quale si rifugiò nel suo Convento a Francavilla per scrivere Il Piacere. Dedicherò ai luoghi dannunziani abruzzesi un altro post.
Francesco Paolo Michetti, I morticini, 1880
“Stagna l’azzurra caldura (…)
Vien per la spiaggia lento il funereo
corteo seguendo croce e cadavere:
sol qualche risucchio di fiotto,
qualche singhiozzo di strozza umana
a tratti a tratti rompe il silenzio
greve (…)
Dietro la croce, dietro il cadavere,
con litanie lunghe, allontanasi,
va va va la pia carovana
sotto la tragica luce immensa.”
da Canto Novo, 1882
Lettere del Poeta adolescente
Stanza I (soggiorno):
Room I (living room)
“Il passato mi piomba addosso col rombo delle valanghe; mi curva , mi calca. Soffro la mia casa fino al tetto, fino al colmigno, come se le avessi fatto le travature con le mie ossa, come se l’avessi scialbata col mio pallore.
Non c’è nessuno in cima alla scala. Comprendo. Quel silenzio è pietà e pudore. La sventura è su la seconda soglia, e sola mi accompagna per mano.
La prima stanza è deserta. La felicità di una volta non vi lasciò se non coltelli affilati per dilaniarmi.”
da Notturno
Questa prima stanza è di particolare interesse per le decorazioni parietali e principalmente per quelle della volta, ispirate a motivi neoclassici del XIX sec.: al centro di ogni spicchio sono raffigurati amorini su piccoli carri trasportati da animali fantastici. Intorno corrono fasce con motivi vegetali dal tratto sottile e nei pennacchi si notano figurine che sostengono scudi con faretre e frecce e motivi vegetali a forma di candelabre.
L’arredo della stanza è costituito da eleganti mobili ottocenteschi, che conservano e tramandano il ricordo degli ambienti borghesi di provincia del XIX secolo.
Vittorino Scarselli “Ritratto di Teofilo Patini”, 1900-1906; Pasquale Celommi “La Lavandaia”, 1885-88.
I due quadri sono in esposizione temporanea e provengono dal Museo Nazionale d’Abruzzo de L’Aquila.
Stanza II (lo studio):
Room II (the studio)
“La seconda stanza è deserta . Ci sono i libri della mia adolescenza. C’è il leggìo musicale del mio fratello emigrato. C’è il ritratto di mio padre fanciullo col cardellino posato su l’indice teso.
da Notturno
“La stanza dove scrivo ha ne la volta la storia di Anchise salvato da Enea, l’incendio di Troia. E guardo quelle figure ch’empirono di strani sogni la mia infanzia”.
Da una lettera a Donatella Goloubeff del 10/3/1910, scritta durante un breve soggiorno nella casa natale.
Anche questa stanza, lo studio, si distingue per le interessanti decorazioni parietali e per il soffitto interamente decorato con motivi ispirati al neoclassicismo e soprattutto alle grottesche, opere di maestranze marchigiane del XIX sec. Al centro di ogni spicchio della volta sono raffigurati amorini danzanti, aquile, cani da caccia e uccellini; nei pennacchi, coppie di arpie. Più in alto, su ripiani, sono disposti vari oggetti, piedistalli con statuine, anfore, tripodi con bracieri accesi, drappi colorati.
Alle pareti sono esposti i ritratti di Antonio d’Annunzio e Anna Giuseppa Lolli che nel 1851 adottarono il nipote Francesco Paolo Rapagnetta, padre del Poeta. Al centro del soffitto è inserita una tela raffigurante La fuga di Enea da Troia in fiamme. Il tema è tratto dal II libro dell’ Eneide di Virgilio.
Di particolare interesse è il piatto giapponese in porcellana decorata con smalti policromi Ao-Kutani del periodo Meiji (1868-1912) raffigurante un paesaggio autunnale con figure, esposto in una vetrina. In un angolo è posto un leggio musicale, probabilmente quello usato dal fratello Antonio musicista, emigrato negli Stati Uniti e ricordato nel Notturno.
Il leggio musicale apparteneva al fratello del Poeta, Antonio, che si distinse in famiglia per la vocazione per la musica. Emigrò negli Stati uniti nel 1901, dove sfruttando la sua naturale predisposizione alla musica, visse dando lezioni di piano e suonando l’oboe in un’orchestra.
Pittore di Scuola Marchigiana, La fuga di Enea da Troia in fiamme
Dipinto su tela, sec. XIX
Ritratto di Francesco Paolo Rapagnetta – d’Annunzio
Dipinto su tela, metà sec. XIX
Il ritratto raffigura il padre del futuro Poeta, all’epoca della sua adozione da parte degli zii Antonio e Anna Giuseppa d’Annunzio, registrata il 4 dicembre 1851.
Stanza III: Camera del Poeta e del fratello Antonio
Room III: Bedroom of the Poet and his brother Antonio
“Nella terza stanza c’è il mio letto bianco; c’è il vecchio armadio dipinto, con i suoi specchi appannati e maculati; c’è l’inginocchiatoio di noce dove mi sedevo in corruccio e rimanevo ammutolito, con una ostinazione selvaggia, per non confessare che mi sentivo male.
Le ginocchia mi si rompono; e le pareti mi prendono, mi vincolano a loro, mi girano, come una ruota di tortura”.
da Notturno
“Un tratto della mia infanzia mi piace ancòra. Quando avevo qualche malanno, quando mi doleva il capo o mi si gonfiava una gengiva o mi s’ammaccava un ginocchio,e anche quando avevo in me il principi di un male più grave, divenivo taciturno e selvaggio. Senza dir parola né far lamento, mi ritraevo nella mia stanza e mi mettevo a sedere sul gradino d’un inginocchiatoio ch’era accanto al mio letto. Credendonmi ai soliti giuochi, per alcun tempo i familiari non mi cercavano. Se una delle mie sorelle veniva a raggiungermi e mi domandava che avessi, rispondevo aspro scacciandola. M’accadeva talvolta di vedere l’oscurità del vespro entrare pé vetri,la stanza riempirsi d’ombra; e, per non muovermi, dominavo lo sbigottimento. Qualche sera, là su l’inginocchiatoio, cominciavo a battere i denti, preso da una febbre improvvisa; e non mi muovevo ma mi rannicchiavo come un cùcciolo. Udivo il mio nome chiamato per le stanze lontane; e una grande ira mi gonfiava il piccolo cuore. Qualcuno entrava rischiarando il buio.
-Ah,sei qui?- Sono qui. -Perchè?- Perchè voglio star qui. -Che hai?- Nulla. -Non vuoi venire a cena?- No -Ti senti dunque male?- No sto benissimo. -Non è vero- Benissimo. -Scotti!-
Iroso scalzavo la fronte respingevo la mano, respingevo la mano, soltanto la dolcezza e la pazienza di mia madre mi vinceva. Con le ciglia aggrottate, con i denti stretti, con le pugne chiuse mi lasciavo spogliare mettere al letto. Allora ficcavo il viso nel guanciale non rispondevo più, non mi volgevo più tutto avviluppato econtratto intorno al nodo del mio cruccio, simile ad una bestiola ferita cui la sua tana non sembri abbastanza fonda”.
Da “Esequie della giovinezza” in “Il compagno dagli occhi senza cigli delle Faville del maglio”
La camera del Poeta e di suo fratello Antonio non conserva più i letti originali perchè sono stati trafugati nel periodo dello sfollamento, durante l’ultimo conflitto mondiale. Nella lettera alla Goloubeff del Marzo 1910, così ricorda il suo letto: “Sono senza coraggio. Vorrei stendermi su quel piccolo letto dove ho sognato i miei sogni di gloria , e pacificarmi nel sonno senza risveglio. Sono stanco di questa perpetua ansietà”.
Sono ancora presenti il mobile con alzata del XVIII sec. ornata da applicazioni policrome a motivi fitomorfi “il vecchio armadio dipinto”, e l’inginocchiatoio di noce, munito di scomparti chiusi da due sportelli, dove si riponevano i libri delle preghiere, ricordato nel Notturno, in altre prose e sempre nella lettera alla Goloubeff, come “l’inginocchiatoio delle preghiere infantili”.
Sulle pareti sono esposte stampe sacre, S. Alfonso Maria dei Liguori e La Madonna Immacolata e un piccolo dipinto dipinto su vetro del XIX sec., raffigurante il Cristo portacroce: si tratta di un esemplare di pittura applicata su vetro a freddo e sul rovescio, in modo da consentire la visione per trasparenza.
Stanza IV: Camera della zia Maria
Room IV: Aunt Maria’s bedroom
“Nella quarta stanza c’è il piccolo Gesù di cera dentro la sua custodia di cristallo; c’è la Madonna delle sette spade; ci sono le immagini dei santi e le reliquie raccolte dalla sorella di mio padre santamente morta; e ci sono le mie prime preghiere, quelle del mattino così dolci, quelle della sera ancora più dolci, che per rientrare nel mio cuore mi sfondano il petto come se fossero divenute le armi dell’angelo implacabile”.
Da Notturno
La quarta stanza è quella della zia Maria Rapagnetta che con la sorella Rosalba conviveva nella casa del fratello Francesco Paolo, padre del Poeta.
Le immagini sacre e le reliquie sono andate disperse: sulla destra è ancora conservata una stampa litografica del XIX sec. raffigurante la Madonna dalle sette spade. A Pescara e Castellammare Adriatico era particolarmente viva la devozione per la Madonna dei sette dolori, anche per la presenza dell’omonimo santuario. La stampa riproduce la statua della Madonna del pianto di Fermo, opera dell’artista marchigiano Sebastiano Sebastiani (1626).
Fra i mobili che arredano la stanza è da notare il cassone in legno intagliato che riproduce motivi ispirati alla tradizione popolare abruzzese.
Sulla parete destra si può ammirare la copia di un dipinto raffigurante una elegante figura femminile. Il sito della casa natale dice a riguardo “identificata dagli storici locali come la dogaressa Anna Morosini o, più probabilmente, con Maria Votruba, la traduttrice “czeca” della Nave e di altre opere del Poeta, che fu ospite in questa casa.”
In realtà l’identità della donna rimane dubbia, così come l’autore del dipinto di cui ho trovato una foto online a colori che sembra simile in tutto tranne per un piccolo stemma nell’angolo in alto a destra. La casa natale identifica l’autore con un non altrimenti noto L.Seccia ma altrove ho trovato lo stesso dipinto attribuito a Lino Selvatico, “Annina Morosini” e datato 1910.
L.Seccia (?), Giovane donna con levrieri
Dipinto su tela, sec. XX, h.54 x 30
Lino Selvatico (?), Annina Morosini (?), 1910.
Stanza V: Camera dei genitori
Room V: Parent’s bedroom
“Tre gradini salgono alla quinta stanza , come tre gradini d’altare.
È piena d’ombra , sotto la volta arcuata. Rimbomba. Il cuore batte le mura con l’urto cieco del destino. Il vasto letto la occupa, dove fui concepito e generato. Credo di udire dentro di me le grida di mia madre che, quando nacqui, non penetrarono le mie orecchie sigillate. L’odore indefinibile della malattia mi soffoca. Una mano fredda mi piglia e mi trae verso la stanza sesta”.
Da Notturno
Tre gradini introducono nell’ambiente più importante della casa, la stanza dei genitori con l’annessa alcova, dove nacque Gabriele d’Annunzio il 12 marzo 1863.
Il vasto letto fu trafugato durante il periodo bellico: una ricostruzione degli arredi della stanza, come erano conservati dopo la morte della madre (1917), ci viene fornita dall’acquerello del noto pittore abruzzese Michele Cascella (figlio di Basilio autore del ritratto di Luisa d’Annunzio che si può vedere nella stessa stanza), dove è raffigurato l’imponente letto in ottone.
Le stampe esposte sulle pareti sono quelle originali: fra queste si distinguono, sulla destra, una Sacra famiglia con San Giovannino, libera riproduzione della Madonna di Francesco I che Raffaello Sanzio dipinse nel 1538 per la Regina di Francia e, sulla sinistra, La presentazione al tempio di Maria di Tiziano Vecellio (vedi stanza II) e La cena di San Gregorio Magno di Paolo Caliari e il dipinto di arte popolare La Madonna Addolorata e i Santi Cetteo e Vincenzo Ferrer.
Su uno dei due cassettoni sono poggiate le statuine di S. Anna e Maria bambina, protette da una campana di vetro, conosciute come “conocchie”, manufatto a carattere devozionale dell’arte popolare centro meridionale.
Accanto al letto sono conservati un caldano in ottone e la poltrona sulla quale riposava donna Luisa, la madre del Poeta; così la ricorda Ennio Flaiano: “Al primo piano, sul balcone estremo guardando la facciata, ho visto talvolta seduta … Donna Luisa. Una vecchia dal volto nobile, bianca e infelice, dicevano, per la lontananza del figlio”.
Luisa d’Annunzio, madre del Poeta
Michele Cascella, La stanza di Luisa d’Annunzio (acquerello su carta)
Il dipinto raffigura la stanza dove nacque il Poeta, con al centro il grande letto in ottone trafugato durante l’ultimo conflitto mondiale.
È evidentemente un omaggio dell’artista alla memoria del Poeta, in occasione della ricorrenza, nel mese di marzo, degli anniversari della nascita e della morte, cui alludono le corone d’alloro deposte sul letto, dono di una delegazione di donne fiumane.
In basso a sinistra è scritto: “La camera dove è nato il Poeta /Pescara marzo 1940/Michele Cascella”
Stanza VI (vestiario)
Room VI (wardrobe)
Questa stanza era adibita a soggiorno ed arredata con mobili ottocenteschi. In essa trovano posto alcuni capi di abbigliamento del guardaroba appartenuto al d’Annunzio che rappresentano una interessante documentazione della moda italiana degli inizi del XX sec., che ha trovato nel Vate l’interprete principale di un modo elegante e moderno di espressione.
Basilio Cascella “Donna d’Abruzzo”. Prestito temporaneo dal Museo Nazionale d’Abruzzo de L’Aquila.
Stanza VII (cimeli e lettere):
Room VII (relics and letters)
In questa sala sono esposti documenti del XIX sec. della famiglia d’Annunzio, alcune edizioni originali di opere dannunziane e due lettere autografe del Poeta indirizzate alla madre.
Laudi del cielo del mare della terra e degli eroi, vol. I, Maia – Editori Fratelli Treves, Milano 1904. Illustrazioni di Giuseppe Cellini;
La Nave, Editori Fratelli Treves, Milano 1908. Illustrazioni di Duilio Cambellotti
Luisa d’Annunzio: la madre del Poeta nel 1914 e nel 1903-4
D’Annunzio orbo veggente nella casetta rossa a Venezia
Il Poeta partecipa al banchetto in suo onore per la prima rappresentazione de La figlia di Iorio, 26 giugno 1904;
Il Poeta davanti al municipio di Pescara il 23 giugno 1904
Varie foto del padre, madre, d’Annunzio adolescente e d’Annunzio soldato
Stanza VIII: Calchi del volto e della mano del Poeta
Room VIII: Poet’s death mask and hand
In questa stanza si conservano i calchi del volto e della mano del Poeta.
La maschera funeraria è in cera plasmata direttamente sul volto poco dopo la morte (notte del 1° Marzo 1938) da parte dell’amico scultore Arrigo Minerbi, che così ricorda le volontà e le parole del Vate: “Ho aperto la giacca sullo sterno, ho abbassato il colletto della camicia. Gli occhi sono chiusi, le ciglia brune, nitidissime e folte, attraverso il velo delle palpebre sottili ritrovo il suo sguardo… Per la ricostruzione mi basta. Non dimenticherò le sue parole: “Nel mio volto supino la lesione del tempo e della vita a un tratto sarà cancellata; ridiventerò giovane nel marmo del mio sepolcro”. Con ambo le mani, con fraterna tenerezza gli sollevo il capo. Sul guanciale nero viene stesa una tela bianca. Sono le 4.30 del mattino. Ho finito. Riparto. Tra poche ore, qui vi sarà folla: la “fiera del morto”… Nessun altra visione deve sovrapporsi a quella che porto meco nel cervello e nel cuore. Vorrei non tendere la mano ad alcuno per non cancellare la sensazione plastica del suo volto“.
Il calco della mano è in gesso, plasmato anch’esso direttamente sulla salma dal Minerbi, che così descrive i particolari della realizzazione: Ho nelle mie mani le sue mani. Levo il nastro che lascia un solco ai polsi, e le disgiungo. La destra mi si abbandona morbida e confidente. Cerco di atteggiarla nell’atto di scrivere… mi ubbidisce all’istante. Il pollice si appoggia lentamente all’indice e vi aderisce. Vi aderisce tanto, che nel calco in gesso ne rimarrà visibilmente l’impronta. Penso: certo l’abitudine di serrare la penna ancora lo tiene! Il gesso liquido e freddo ricopre lentamente il polso, le dita, la mano che ha scritto le Laudi”
Stanza IX (D’Annunzio uomo politico):
Room IX (D’Annunzio politician)
In origine anche questo locale era destinato a soggiorno; oggi ospita alcuni pannelli didattici che rievocano i principali episodi nei quali d’Annunzio si distinse per impegno politico e militare durante il primo conflitto mondiale.
La decorazione del soffitto della stanza fu realizzata nel 1937 da Dante De Carolis, fratello minore di Adolfo, che eseguì anche la decorazione del soffitto della stanza della zia Maria nonchè i restauri pittorici della casa.
Nelle vetrine, poste al centro della sala, sono esposte due divise da Generale Onorario di Brigata: una bianca estiva e l’altra in panno azzurro. Queste capi non sono divise d’ordinanza: il Poeta le fece realizzare dal suo sarto di fiducia, Beretta-Farè di Milano, nel 1926, dopo la sua nomina a “Generale onorario di Brigata Aerea” della Compagnia d’Onore nel reparto di Alta Rappresentanza dell’Aeronautica Militare, forza militare che era stata costituita solo due anni prima (R.D. N° 645 del 28 marzo 1923).
Oltre alle due divise sono esposti un completo, con giacca doppiopetto con bottoni dorati, della sartoria Prandoni di Milano, che ritorna in molte immagini fotografiche degli anni del Vittoriale (1929-1930), e un completo grigio verde, dal taglio sportivo, della sartoria parigina di Cèsi Tommasini, che il Poeta amava indossare con il copricapo “Fedora”.
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